Categories: scr1979
      Date: Oct 30, 1979
     Title: Per un’architettura banale
Alessandro Mendini, 1979

Questo scritto rende più esplicita e organica una serie di idee che altrove ho già espresso per frammenti sulle riviste “Modo” e “Casabella”.
Il possibile concetto di una Progettazione banale, piattamente quotidiana, amorale e cinicamente nota a se stessa, è comunque qui ancora solo accennato e privo di verifiche.
Mi è parso utile compiere un tentativo di spostare la problematica del Moles dal terreno socio-psicologico a quello progettuale, con le grosse conseguenze e i gravi rischi che la cosa può comportare: dal ribaltamento dei metodi all’annullamento dei valori.
Mi sembra opportuno, oltre che doveroso, pubblicare questo scritto a commento di questo libro di Moles, perché è proprio dalla lettura di esso che ho iniziato varie considerazioni.
Per quanto riguarda la problematica sociologica, ho lavorato con Pippo Zappulla, cui si devono le prime due parti dello scritto.

La fine del mito proletario
“Kitsch”: cerchiamo il significato in tre diverse enciclopedie; il vocabolo non esiste. C’è solo nel Grande Dizionario della lingua italiana (Utet) che lo liquida in poche righe: “cattivo gusto portato al massimo grado, più o meno intenzionalmente, in determinate forme e correnti artistiche”. Sotto, una annotazione scritta in caratteri microscopici, detta fra i denti in maniera un po’ misteriosa: “origine etimologica incerta”. Come dire: “signori, navighiamo nel buio”. A chiarire un po’ le cose ecco il nuovo libro di A. Moles, dove del kitsch viene data non solo una definizione decente, ma anche una spiegazione che trascende lo stereotipo del “cattivo gusto” cercando di comprendere il fenomeno nella sua globalità. Cioè non riferendolo al bello o al brutto, al buon gusto o al suo contrario, ma considerandolo un “fatto sociale” che va analizzato e studiato nei termini di un rapporto con le istituzioni e la struttura sociale. Se è vero, infatti, che il kitsch è legato all’arte in modo indissolubile, non bisogna però dimenticare che la sua prosperità è legata all’accesso al potere e alla promozione della civiltà borghese nel momento dell’affluenza. Così dice l’autore. Ed è chiaro che così intende sgombrare il campo da dubbi e incertezze circa il taglio che egli vuol dare al suo libro: il kitsch è un fenomeno sociale che si pone come modo di essere. Che trova il suo terreno ideale nel mondo borghese occidentale caratterizzato dall’intervento di mediatori fra l’uomo e la società; dove è sempre maggiormente limitato lo spazio dell’artista che crea; dove al contrario si allarga sempre di più la sfera riservata alla produzione intesa come ripetizione di una catena operativa in cui l’uomo viene praticamente eliminato.
Ripetizione cui consegue una nuova attività nella relazione dell’uomo con l’ambiente: il consumismo.
Ecco, il kitsch è essenzialmente questo: moltiplicabile e deperibile. Per definizione è basato sulla civiltà consumistica che crea per produrre (moltiplicabilità) e produce per consumare (deperibilità). Nato nella Germania di fine secolo con vari significati (vendere una cosa al posto di un’altra; spazzatura artistica; far di mobili vecchi mobili nuovi) “kitsch” ha finito per significate la negazione dell’autentico; anzi l’autentico in versione supermercato, cioè stravolto da un qualcosa che rende il pezzo raro alla portata di tutti e di tutte le tasche: autenticamente falso. Si è usato il termine “supermercato” e sarebbe imperdonabile non commentarlo subito. La parola per Moles è fondamentale perché solo attraverso la realtà “supermercato”, ci rendiamo conto fino a che punto è in gioco il problema dei rapporti dell’uomo con le cose.
L’autore dice che siamo in presenza di un immenso luogo di ostentazione di oggetti, dove l’uomo si confronta con quello che è il prodotto della sua civiltà. È questa l’immagine kitsch latente (ma non troppo) dell’universo contemporaneo di cui il libro vuole essere rivelatore. Merce a buon mercato per tutti. Merce deperibile a buon mercato per tutti, ma fruibile subito. Merce accettabile perché non urta il nostro spirito con una trascendenza fuori dalla vita quotidiana. Allora: merce deperibile a buon mercato che ha lo scopo di fare la nostra felicità, senza sforzo, senza contrasti. C’è un libro di Ortega y Gasset (La ribellione delle masse) che ha avuto a suo tempo una certa notorietà; l’autore vi discorre del fenomeno della società di massa con delle argomentazioni non sempre accettabili, anzi per lo più discutibili. Si parla di una  massa che dà battaglia e impone le sue leggi: “La massa ritiene d’avere il diritto di imporre e dar vigore di leggi ai suoi luoghi comuni da caffè. Io dubito che ci siano state altre epoche della Storia in cui la moltitudine giungesse a governare così direttamente come nel nostro tempo”. Falso. Falso perché oggi la moltitudine non vuole governare niente. L’uomo massa di cui parla Ortega (se è mai esistito) si è trasformato in un uomo kitsch, cittadino felice, caratterizzato dalla mediocrità che tutto accetta e concilia. Basti pensare che il kitsch si pone come grande vittoria del talento sul genio; basti pensare che il dominio privilegiato del kitsch è l’appartamento, la sfera personale in cui si esercita in maniera costruttiva il rapporto con le cose.
Fenomeno tipicamente borghese, il kitsch raggiunge il suo apogeo con la esplosione della società affluente. Non esistono più bisogni che non possono essere appagati. Questa società è in grado di soddisfare ogni tipo di bisogno: nel grande magazzino si può trovare un numero indefinito di oggetti a buon prezzo. A meno che non si voglia ricorrere alle vendite per corrispondenza che garantiscono qualità e convenienza senza sprechi (?!) di tempo che costringono ad abbandonare il paradiso dell’appartamento.
Questo stile di vita kitsch lo troviamo anche nella letteratura. Il libro di Moles è molto ricco di esempi; a noi basta qui citare le parole dell’autore: “l’accumulo, la sinestesia, la mediocrità dorata, l’angoscia possessiva, la sproporzione fra i mezzi e i fini, il romanticismo, queste sono le componenti del pasticcio kitsch”. E poco più avanti: “i sistemi di associazione impiegati nella letteratura kitsch obbediscono all’automatismo di una società priva di conflitto”.
La meta è il mercato totale. È in questo contesto che viene a inserirsi il discorso sulla tesi funzionalistica che “nasce da una reazione contro la proliferazione dell’inutile, da una volontà di rigore, da una accettazione dell’oggetto o del prodotto tecnico così com’è, che si tratti di una parete in cemento di Le Corbusier o delle superfici non strutturate degli anni ‘30”. Ora è chiaro che una reazione contro la proliferazione dell’inutile non può che porsi come l’antikitsch per eccellenza.
Dice Horkheimer: “L’invocazione della Kultur (in opposizione alla Zivilisation) è impotente. Ma altrettanto vero è che l’attività dello incivilimento come produzione e uso coltivato di meri oggetti strumentali e per di più spesso superflui, si è resa ormai fine a se stessa in misura intollerabile, e che gli uomini non sono più o quasi padroni di quest’apparato, ma suoi funzionari, ovvero consumatori coatti di quel che esso produce” (Lezione di sociologia, p. 108).
Per sfuggire a questa logica il funzionalismo elabora una razionalità che si basa sul concetto di funzione. La bellezza scaturisce dall’adattamento di un oggetto al proprio scopo (Gropius). In contrapposizione al kitsch, viene proposto il giusto impiego dei mezzi per raggiungere dei fini. Ma quali fini? I funzionalisti non possono fornire una risposta. Di questo vuoto approfitta l’uomo-kitsch che attraverso le leggi dell’estetica industriale aprirà le porte al neokitsch. Paradossalmentela razionalità funzionale dei funzionalisti si trasforma nelle aberrazioni della funzionalità, dell’iperfunzionalità dell’innovazione tecnica.
In effetti, a voler ben considerare, l’idea stessa di funzionalismo non può non avere come conseguenza che uno sviluppo di tipo neokitsch. Si può al limite del discorso, produrre in maniera razionale ciò che non serve a niente, l’inutile, lo spreco organizzato. “Si doveva realizzare una società che fosse più razionale e umana anche nei suoi aspetti più periferici, come potevano essere una sveglia o un televisore. Questo operatore alla fine si accorge di aver modificato la sveglia e il televisore, di non aver condizionato il potere, di avergli fornito soltanto nuovi pezzi di vendita. Così è successo che il contesto politico abbia assorbito e cambiato direzione all’utopia del design” (Enciclopedia Feltrinelli Fischer: Comunicazione di massa, “Design”, p. 94). Nasce così il supermercato che si pone come luogo di concentrazione di oggetti capaci di creare piacere a misura d’uomo attraverso quattro elementi:
1.la falsa funzionalità, ottenuta con la riduzione delle dissonanze sul piano semantico;
2.il piacere ludico, bisogno represso e quindi più intenso;
3.la perenzione dell’oggetto, come elemento distintivo del neokitsch rispetto al kitsch tradizionale;
4.la moda che assicura una perequazione dei bisogni.
In questo contest, una figura nuova si impone all’attenzione: il designer. Egli si pone a metà fra il creatore di idee il consumatore. Diventa un tecnico dell’arte piuttosto che un artista  egli stesso; egli progetta ma avendo presente solo ciò che il pubblico vuole, che è disposto a comprare.
Qualche piccola innovazione la si può proporre, ma quel tanto che non dia l’impressione di una rottura con la tradizione. Così l’opera del designer diventa essenziale per il neokitsch che assume il modello fatto per essere copiato in migliaia di esemplari identici, come sua propria caratteristica; al punto che l’autore definisce il neokitsch come moltiplicabile anche nel caso si tratti di un prodotto raro.
Dice Marcuse: “E’ bene che quasi tutti possano ora avere le belle arti a portata di mano, solo che girino una manopola, o mettano piede nel supermercato. Nel caso di tale diffusione, tuttavia essi diventano ingranaggi d’una macchina culturale che riforma per intero il loro contenuto” (L’uomo a una dimensione, p.84).
Mania possessiva. Gli “oggetti “ servono all’uomo kitsch per riempire la sua conchiglia, il suo appartamento. Per ricostruire nel suo ambiente quella ricchezza di pezzi che ha adorato nel supermercato. Si tratta di riprodurre un microcosmo di oggetti che somigli il più possibile al macrocosmo del supermercato. Questa riproduzione rimane kitsch anche se fatta con un insieme di quadri d’autore che non sono essi stessi kitsch, ma fondano l’ambiente kitsch, come ripetizione della categoria “quadro d’autore”. Allora diventa essenziale all’analisi comprendere la relazione uomo-oggetto.
Qual è il significato della possessione dell’oggetto? Un appagamento, una gratificazione (nel senso in cui ne parla Marcuse).  A questa civiltà tecnologica basta chiedere o esprimere un bisogno di qualsiasi tipo. La risposta è sempre positiva, facile, accondiscendente. E non importa se il bisogno da soddisfare venga proprio dalla stessa civiltà tecnologica e non da un prurito interno, dalla nostra immaginazione, da una ricerca personale. “La progressiva riduzione del divario nei consumi ha reso possibile l’integrazione delle classi lavoratrici sia sul piano intellettuale che su quello emotivo” (Marcuse, Saggio sulla liberazione, p. 28).
L’effetto dunque è stato raggiunto. Il soddisfacimento (apparente) di ogni tipo di bisogno, da quello biologico al più raffinato e sofisticato, inducono alla coscienza felice. A questo la civiltà occidentale non è arrivata in preda a un raptus consumistico, inarrestabile e ineluttabile come vorrebbero farci credere coloro che sono in grado di “manipolare” il potere: “È ancora il caso di sottolineare che non sono la tecnologia, né la tecnica, ma la presenza di esse dei padroni che ne determinano il numero, la durata, la forza, il posto nella vita, e il bisogno di esse?” (Marcuse, op. cit. p. 24). Quale sarà il futuro? Moles   ritiene che il kitsch conduce alla condizione di kitsch l’intera società, in cui gli stessi rapporti sociali sono influenzati e trasformati dai rapporti dei singoli con gli oggetti. Allora del kitsch si potrebbe arrivare a dare una giustificazione sociologica dal momento in cui il legame fra vita quotidiana e kitsch appare essenziale. “Esso rifiuta la trascendenza e si stabilisce nella maggioranza, nella media, nella distribuzione più probabile. Il kitsch, diciamo noi, è come la Felicità, per tutti i giorni” (Moles, p. 208). La conclusione: ogni essere umano in quanto uomo quotidiano non può che sottostare al kitsch, sia egli un eroe, un asceta, un artista. Chiaramente l’accento è posto su una situazione di impotenza dell’uomo. Il kitsch non è eliminabile. È meglio allora imparare a viverci insieme, ad addomesticarlo tentando di tanto in tanto a livello strettamente personale (divagazioni consentite solo agli intellettuali) qualche sopraffazione.

La coscienza infelice
Ciò che distingue la società consumistica da qualsiasi altra p la presenza del fenomeno “kitsch”. Il kitsch in questo senso assume la rilevanza di un “fatto sociale” nel significato attributi da Durkhein a questa espressione, e come tale merita di essere studiato in quanto può fornirci una chiave di interpretazione sociale. Indirettamente Moles ci mette in guardia dal considerare il kitsch come una semplice espressione del cattivo gusto, della banalità, dell’ovvio, di cui sorridere. Il kitsch secondo Moles è un modo di vivere appunto dell’uomo-massa che si trasforma in uomo-kitsch; e non tanto perché l’uomo-massa fa suoi determinati oggetti al limite del buon gusto (come “fatto sociale” il kitsch non è scelta individuale ma un insieme di modelli di comportamento che siamo spinti a far nostri).
L’essenza del fenomeno va ricercata nel modo di porsi della produzione industriale. Già, perché la nostra società produce, raramente crea e quando crea, crea per produrre.  E produce perché qualcuno consumi. Tutto ciò suppone una società affluente che organizzi lo spreco. Senza spreco non c’è produzione, non c’è consumo e il sistema s’inceppa. E perché ci sia spreco occorre creare (qui sì creare) bisogni sempre nuovi. E qui arriviamo a uno dei punti che più stanno a cuore a Moles: la costruzione di una “Teoria dei bisogni”, partendo dal kitsch. È questo il punto focale di tutto il saggio. L’individuazione di un modo di vita kitsch sarebbe fine a se stesso se non avesse presente lo scopo della costruzione di una teoria capace di rendere espliciti i meccanismi che portano al fenomeno kitsch. Se così non fosse, il libro di Moles non si distinguerebbe da altri: vedi, per esempio, la raccolta antologica di Dorfles, apprezzabilissima per la sua completezza e la ricchezza di argomentazioni e immagini, e in particolare in essa il capitolo di Gregotti su kitsch e architettura. Vedi anche il capitolo sulla struttura del cattivo gusto in Apocalittici e integrati di Umberto Eco. Ora, il Moles sente la necessità della costruzione di una “Teoria dei bisogni” senza peraltro arrivare ad un’esplicita configurazione sistematica adatta alla vera formazione di una teoria. Infatti, l’autore dice bene quando dice che l’elencazione di una somma di bisogni elementari costituisce il primo scopo di una “Teoria dei bisogni”, quando afferma che siamo di fronte ad una società globale, ad un mercato immaginario che è un immenso luogo di ostentazione di oggetti dove il confronto essenziale è quello fra uomo e assortimento come prodotto di una civiltà. È pure assai interessante la costruzione di una carta economica, dell’attività creatrice industriale dove una diagonale ottimale separi la società di produzione da quelle di consumo. Tutti elementi che possono contribuire alla formazione di una teoria. Ma già sullo sviluppo dell’ultimo punto appena citato, laddove Moles introduce la nozione di uno sforzo propagandistico in corrispondenza della motivazione di produzione, e l’idea di pubblicità in corrispondenza della motivazione al consumo, bisogna nutrire qualche riserva. La distinzione in questo contesto fra pubblicità e propaganda ha scarsa rilevanza. Si tratta, in ultima analisi, di una propensione al consumo: a questa propensione non sfugge di certo l’Unione Sovietica e neppure la Cina dopo la banda dei quattro. Si potrebbe al limite parlare di un consumo diverso ma che è in linea con la stessa identica logica della società dei consumi. Ora, questo tipo di indirizzo, questo porsi talvolta sulla strada di falsi problemi e false distinzioni, portano l’autore a trascurare la reale portata di una “Teoria dei bisogni” che, partendo dall’analisi del kitsch, sia in grado di far risaltare problemi di vitale importanza per la società in cui viviamo.
Sarebbe perciò importante integrare lo sforzo teorico di Moles rifacendosi ad una serie di connessioni che potrebbe essere la seguente:
a)Teoria dei bisogni e funzionalismo
b)Teoria dei bisogni e manipolazione
c)Teoria dei bisogni, assenza di conflittualità e creazione di consenso
d)Teoria dei bisogni e scoperta del fatto che non esiste più un proletariato rivoluzionario.

Qualche breve annotazione a questi quattro punti.
a)Teoria dei bisogni e funzionalismo. L’idea stessa di funzionalismo richiama quella della soddisfazione di un bisogno. In fondo il funzionalismo parte da quella che Horkheimer chiama “ragione strumentale” che procede in termini di “fare per” dove il soggetto pensante ha perso l’abitudine di considerare che ci si possa essere qualcosa che non serva per qualcos’altro. Del resto Moles riconosce questa realtà: “ A questo punto la tendenza della funzionalità degenera nella frenesia del kitsch. Il coltello da pompelmo, lo spazzolino da denti elettrico, il coltello a pila, le cesoie per l’uovo à la coque, sono tutti elementi aberranti della società produttrice che gira a vuoto e che fa capo a un gioco quasi del tutto gratuito”. C’è da porsi allora la domanda se, come afferma l’autore, il neokitsch nasce dalla crisi del funzionalismo o non piuttosto spinto alle estreme conseguenze.
b)Teoria dei bisogni e manipolazione. Parliamo qui di manipolazione nel senso descritto da W. Mills nel suo libro La élite del potere: “Formalmente l’autorità risiede nel popolo, ma, di fatto, l’iniziativa sta in mano a ristrette cerchie di persone. Per questo la tattica comune della manipolazione consiste nel far sembrare che le decisioni vengono prese veramente dal popolo o almeno da larga parte del popolo. Per questo gli uomini che hanno accesso all’autorità, anche quando potrebbero investirsene, preferiscono i sistemi segreti e più tranquilli della manipolazione”.
Chi detiene il potere può far uso della manipolazione prendendo delle decisioni, oppure, in maniera più subdola, astenendosi dal prendere decisioni. È così che si può creare un bisogno di sicurezza economico e sociale in forza del quale tutto è lecito al potere. Marcuse dice che l’arresto della Televisione potrebbe portare alla disintegrazione del sistema. Se questa è una affermazione paradossale, non ci si esime però dal mettere in luce che esiste una sfera di bisogni di cui il potere si serve per perpetuare se stesso.
c)Teoria dei bisogni, assenza di conflittualità e creazione del consenso. Il merito del libro Moles, la sua rilevanza dal punto di vista sociologico, si deve proprio al fatto che il kitsch (inteso come modo di vivere tendente a soddisfare bisogni sempre nuovi), viene descritto come essenzialmente conciliante; le sue preferenze vanno alla mediocrità, a ciò che può essere accettato senza sforzo, è apprezzabile il talento, non tanto il genio; si accetta il design, si rifiuta l’arte d’avanguardia; la sfera spaziale dell’uomo-kitsch è l’appartamento, luogo dove egli può esercitare il suo pieno piccolo dominio, senza che questo susciti competizioni o gelosie pericolose. Allora il kitsch nella sua definizione canonica costituisce una riprova della scomparsa della conflittualità della nostra società. La lotta di classe s’è imboscata. Che sia positivo il consenso fra le classi? Non è positivo, perché favorisce l’emarginazione, il ghetto, la disoccupazione, lo sfruttamento, l’esercizio spregiudicato del potere che diventa sempre più arrogante. A questo punto, come dice Marcuse, “la questione non è più come possa l’individuo soddisfare i propri bisogni senza danneggiare gli altri, ma piuttosto come possa soddisfare i propri bisogni senza danneggiare se stesso, ossia senza riprodurre tramite le sue aspirazioni e soddisfazioni la sua dipendenza da un apparato sfruttatore che, soddisfacendo i suoi bisogni, perpetua la sua servitù” (Saggio sulla liberazione).
d)Teoria dei bisogni e scoperta che non esiste più un proletario rivoluzionario. E non può esistere, perché, e bisogna ancora chiamare in causa Marcuse, “nei paesi a capitalizzazione avanzata” (quindi quelli che sono per definizione la patria del kitsch) “la radicalizzazione delle classi lavoratrici è contrastata da un arresto di coscienza socialmente indotto, e dallo sviluppo e soddisfazione di bisogni che perpetuano la servitù degli sfruttati” (op. cit.). La coscienza dello sfruttamento, grazie alla manipolazione in atto e alla conseguente eliminazione della conflittualità, ha lasciato il posto a una pacata accettazione che genera indifferenza e qualunquismo. È scomparsa la necessità della sublimazione (ancora una volta con Marcuse) che sogni e la conseguente desublimazione ha creato la coscienza felice (e non è un caso che il Moles pone come primario, per l’uomo-kitsch, il raggiungimento della felicità).
Scomparso il proletariato rivoluzionario, la parola rivoluzione resta a una fascia di emarginati cui si aprono due strade: il paradiso della droga o la banda armata. C’è una terza via, ma è la più difficile: quella della “coscienza infelice”, cioè quella dell’accettazione critica e cinica del banale quotidiano.

Contro il design della miseria
Tutti conoscono l’accanimento con il quale Enzo Mari gioca la sua responsabilità di presidente dell’Associazione Disegno Industriale di Milano, nel tentativo di modificare la struttura stantia e di dare indicazioni efficaci al lavoro dei progettisti designers, oggi quanto mai problematico.
Per quasi un anno ha messo a punto una “Ipotesi di rifondazione del progetto”, resa pubblica in un laconico stampato di ventiquattro pagine.
Si progetta per soddisfare dei bisogni, sostiene Mari, e ciò avviene, ovviamente, mediante la tecnologia della nostra epoca fondata sulla produzione industriale: ma qual è in realtà il rapporto tra produzione e bisogni? E quale tra progettazione e produzione industriale? “Guadagnarsi da vivere lavorando per soddisfare le necessità di altre persone”, dice Asimow tirato in causa da Mari, è tipico di certe classi, in un sistema dove i bisogni che tendono ad essere soddisfatti sono sempre quelli di altre persone, le quali a loro volta hanno un altro ben preciso bisogno: quello di riprodursi come classe, riproducendo insieme il sistema della divisione in classi.
“La difesa dei ruoli e dei poteri”, dice Gregotti pure citato da Mari, rifiuta “la messa in discussione della propria soggettività e della inautenticità del progresso predatorio che in lei si rappresenta”. Allora, sostiene Mari, vero è che “il sapere tecnico-scientifico è sempre più incorporato nel capitale e nelle sue macchine”, e perciò colui che progetta davvero non è mai il progettista, ma è l’astratta figura del capitale.
Qual è lo spazio che rimane al designer? Null’altro che “la manipolazione dell’oggetto prodotto a fini consensualistici, dalla forma alla presentazione pubblicitaria”. Del resto, ecco il paradosso espresso sottilmente da Dorfles: “Il disegno industriale esiste in quanto esiste la società dei consumi”.
Il designer non partecipa alla fase principale, alla definizione dei bisogni. Tutte le scelte vere sono fatte a monte e sono per lui vincolanti: il suo ruolo si limita a quello di “strumentatore tecnico e persuasore di massa”.
Formulata questa diagnosi con estrema durezza, Mari propone la sua tesi: “La nostra tesi è che si possa parlare correttamente di progetto non già con pretese di tipo ingenuamente interpretativo ma solamente mediante il confronto pratico-teorico con tutto l’arco delle forze effettive di progetto di cui il progettista inteso tradizionalmente è solo parte non rilevante”.
Mari nega che il designer possa restare ancora a lungo un  subordinato che progetta forme più o meno piacevoli, chiuso dentro il suo guscio disciplinare. Ma nemmeno crede al ruolo demiurgico che il designer spesso si attribuisce, né alle utopie umanistiche, né a un possibile governo dei tecnici. Cede ancora la parola, questa volta a Di Marco: “Il problema vero è quello di battersi per una sempre più estesa socializzazione della funzione espressiva, cioè per la sua riappropriazione da parte della maggioranza proletaria che ne è continuamente espropriata. E non è una battaglia da rimandare a dopo la rivoluzione: poiché la contraddizione tra espropriazione e il bisogno di riappropriazione sociale universale della funzione espressiva è, nelle attuali condizioni storico-determinate, una contraddizione già attuale; è una delle contraddizioni nuove emergenti nel tessuto sociale-culturale del tardo-capitalismo”.
Il design post-consumistico, sostiene Mari, non deve seguire grottescamente quello consumistico, connesso alle caratteristiche produttive degli anni del benessere: la transizione dal capitalismo nel socialismo non deve dare luogo a un design “della miseria”. “Siamo convinti”, così conclude Mari il suo laconico messaggio, che una radicale trasformazione della situazione “non è un puro passaggio di gestione degli strumenti di produzione da una classe all’altra, ma implica una profonda trasformazione di questi stessi strumenti, dell’organizzazione del lavoro, dei processi progettuali, del sapere tecnico-scientifico e delle stesse modalità di sviluppo della funzione espressiva”.

La merce infinita
Quando dirigevo “Casabella” fra il 1970 e il 1975 svolgevo assieme ad altri quell’esperienza che oggi viene chiamata del “radical design” e che ora è cambiata molto.
“Casabella” fu in quel periodo il luogo di dibattito di un piccolo ed eterogeneo sistema di culture minoritarie internazionali, che senza di essa forse non sarebbero state documentate.
L’epoca era quella appena dopo il 1968 e ogni esperienza, anche di tipo figurativo degli studenti e dei gruppi con i quali ero collegato, partiva dall’utopia di una “rifondazione radicale del progetto”. Cosa della quale si parla tuttora anche in altri ambienti (vedi il citato documento Mari) per verificare se un simile assunto, magari in termini non radicali, sia ancora la prerogativa letteraria di piccoli gruppi, o invece possa essere considerata una prassi estensibile a grandi masse di operatori.
È utile qui fare in proposito alcune considerazioni.
Analizziamo la parola “rifondare”. Rifondare significa fare tabula rasa, significa vuotare tutto, cambiare tutto, reinventare completamente il rapporto fra le parti, ricostituire tutto il sistema dei termini in questione, creare un confine preciso fra un prima e un dopo, dove il dopo sia tutto differente dal prima.
Vuol dire anche pensare che i problemi siano affrontabili per una via unitaria, con concezioni sintetiche. Di fatto, se rivolta a una grossa massa di operatori, una proposta del genere risulta essere una astrazione non praticabile, non operabile. È come dire “rifondare la politica”: anche la politica la si può rifondare, certo, ma con la rivoluzione. Si è rifondato il progetto per esempio a Cuba, quando in parallelo a esso si è cambiata tutta una struttura politica, sociale, esecutiva e mentale, di colpo. Dopo l’epoca eroica in cui fu chiamato alla ribalta da parte degli studenti nel 1968, il concetto di rifondazioni si trascina oggi in uno stato di vuoto. E ormai quel gergo, quella struttura e quella sostanza sono lontani, i problemi sono molto mutati rispetto a quell’epoca, quando gli intellettuali di sinistra erano una minoranza e quando la lotta si svolgeva con precisione fra destra e sinistra. L’utopia della rifondazione oggi può essere ancora solo un concetto perseguibile da piccoli gruppi progettuali d’urto, come, in effetti, è stato durante l’ultimo decennio. Facendone una questione terminologica, a livello della massa degli operatori si può parlare di “trasformazione”, non di “rifondazione”: perché si tratta di azioni lente e progressive, funzioni di cambiamenti dei rapporti sociali molto più ampi e generali.
Analizziamo la parola “progettuale”, lasciando da parte i progetti d’altra natura, per esempio quelli amministrativi, legislativi, burocratici, economici, eccetera. Per quanto riguarda architetti e designers ritengo che progettare significhi ancora svolgere a qualsiasi livello processi di formalizzazione, occuparsi di problemi di espressione, comunicare tramite le forme funzionali. Quello che occorre vada perduto in modo definitivo è il senso sintetico, monolitico, determinista, carismatico del progetto, con il progressivo difficile avvio dell’idea di “democrazia progettuale”, per quanto complessa e problematica essa sia. Parlare ontologicamente di Progetto al singolare e con la p maiuscola dovrebbe sembrare oggi un atto metafisico; i progetti non sono una ma tanti, sono un intreccio volutamente contraddittorio e infinito. Quanto al progettista bisogna ricordare che la sua è un’attività sempre meno concepita come oggettiva, distaccata e asettica, vale sempre di meno il concetto metodologico e programmatorio di un progettista “freddo” dopo I dimostrati fallimenti del modo ottuso e schematico di credere nei metodi e programmi. Il progettista sarà invece sempre più un animale “a sangue caldo”, con influssi, riflussi e alchimie. La sinistra non potrà più essere considerata da lui una unica e sicura grande griglia di riferimento strategico. I progettisti, gli intellettuali di sinistra che hanno vinto le lotte degli anni ’60, soffrono ora il disagio di essere diventati maggioranza: ormai il problema dell’intellettuale è diventato un problema tutto compreso all’interno della sinistra, dentro la quale I socialisti, I radicali, gli extraparlamentari, le brigate rosse fanno guerra spietata al comunismo. Il nemico degli anni ’60 era noto, individuato e ben visibile, oggi è un nemico invisibile. Sul piano pratico, al progettista corrisponde un dramma anche di carattere tecnico, oltre che di genere politico. Cioè esiste un pendolo: da una parte il progettista borghese, dall’altra parte il progettista proletario in fieri. Noi progettisti borghesi tendiamo per il nostro atavico senso di colpa a perseguire una stilematica di carattere proletario, mentre quelli proletari per il loro atavico miraggio verso la nostra condizione tendono a una stilematica di tipo borghese. Si tratta di due opposti, o se si vuole di due linee parallele che non si vede come e quando possano congiungersi, se non all’interno dell’ipotesi di un mondo “piccolo borghese”. Cioè all’interno di una concezione “banale” della stilematica, all’insegna di un buon gusto del cattivo gusto, di una neutralizzazione estetica dell’oggetto d’uso. Se invece avverrà ad un certo punto che un “proletario”, per altro astratto, rifonderà il suo progetto, ciò è imprevedibile e avverrà assolutamente senza di noi borghesi. Noi borghesi possiamo invece e solo progettare con coscienza la morte progressiva del progetto borghese. In questa situazioni di frantumazione e di impossibilità di sintesi ha molto valore l’applicazione degli obiettivi indiretti, come nel gioco del biliardo, dove se si vuole raggiungere un punto si deve prima colpire più volte la sponda.
Occorre una visione frammentaria e particolare del progetto e bisogna credere che le azioni e gli oggetti molto elementari possano servire alla rivoluzione progettuale e a scardinare la roccaforte reazionaria delle discipline. Non è più il tempo del passaggio di nozioni da piccoli gruppi che sanno verso grandi gruppi che non sanno: lo dimostrano il vitalismo delle minoranze e del contropotere, la debolezza culturale dell’accademia e del professionismo. Occorre occupare non zone disciplinari ma zone infradisciplinari. Bisogna sostituire la parola “progetto” con la parola “vita”, nel senso che mentre il vivere coinvolge tutti, il progettare coinvolge solo gli specializzati. È importante tendere verso la despecializzazione del progetto, verso l’acquisizione di atteggiamenti esistenziali, discontinui, incoerenti, liberatori e corporali, opponendo il progetto vivo di se stessi a chi si ostina a compiere il pedante progetto delle cose. Bisogna che il progetto perda quel senso missionario, cattolico e retorico tipico del movimento moderno, che ha inteso elargire dall’alto la razionalità; il progetto è oggi, invece, la catalogazione, la rappresentazione, la testimonianza critica, l’espressione allegra o disperata di quanto si va vivendo; e qui vale la lezione che sta facendo il femminismo. Il progetto è anche espressione cinica e critica di situazioni di crisi: può segnalare una ideologia politica, un problema energetico, la condanna al consumo, al funzionalismo, allo sfruttamento del lavoro, allo specialismo separato. È anche importante considerare che il progetto fa parte del meccanismo che in definitiva produce quell’insieme infinito, quella galassia fantasiosa che si chiama “merce”. Allora quello del vendere, comperare, scambiare, scegliere, usare, eliminare oggetti progettati è un complesso di atti estremamente importante sul piano delle comunicazioni umane. Un complesso di atti fra i quali quello del progettare non è privilegiato, ma paritetico agli altri.
Credo perciò nel “commercio” come fenomeno qualitativo omologo con quello del progetto, e ho la sensazione che un’eventuale rifondazione del progetto possa partire dopo di quella del commercio, nell’idea di un commercio alternativo.
È anche utile parlare di progetto nel suo aspetto opposto, cioè nella sua possibile accezione di “deprogetto”.
Nel senso che è importante pensare ad uno sviluppo per negativo del progetto, dove l’ipotesi sia quella di togliere anziché accumulare, quella di essere effimero invece che incrostare, di non contribuire alla saturazione costruttiva e alla distruzione per eccesso.
Mentre il progettare ha sempre significato aggiungere nuovo al nuovo, deprogettare significherebbe porsi nell’ottica di una radicale inversione di tendenza dell’architettura e dell’ambiente formalizzato. La nostra era non è sistematica, è contraddittoria e caotica, non è di rifondazione ma di passaggio. Così i suoi progetti sono di confine, e il realismo ci indica che per essi vale un senso di pariteticità e di eclettismo: è tempo di “stabilizzazione indifferente” della ricerca stilematica forse per molti anni. Quanto al problema più cruciale di tutti, quello della socializzazione e della creatività di massa, che da parte dell’intellettuale borghese è vissuto fra èlite e populismo, come questua e petizione del consenso, si può formulare l’ipotesi dell’utopia di una “architettura banale”, della diffusione critica e positiva del gusto piccolo-borghese.
Da tempo l’uomo di massa riversa a valanghe addosso a noi intellettuali gli stilemi che noi abbiamo imposto. Ce li riversa in grande quantità dopo averli rielaborati e resi culturalmente omologhi e adatti a se stesso. Questa operazione di risemantizzazione semi-popolare viene di solito compiuta da semispecialisti, quali geometri, piccole industrie, eccetera, che possono essere considerati i veri rappresentanti progettuali della creatività di massa, che producono edilizia ed oggetti nei quali si è perduto il terrorismo tipico del progettista intellettuale. Con questa edilizia, con questi oggetti e ambienti banali, che sono acquisiti intimamente dal pubblico normale nel suo quotidiano, l’uomo di massa si sente a suo agio, svolge la sua azione di creatività indiretta, applica la rilassante estetica della sua normale giornata, il diritto di usare dei progetti “autenticamente falsi”.

Creatività piccolo borghese
Il grande numero e la grande serie contengono e implicano il concetto di “banale”. La moltiplicazione del capolavoro è una utopia intellettuale. La Gioconda di Leonardo non è kitsch, lo sono invece le sue infinite riproduzioni vendute dal cartolaio. Così dicasi per le case a schiera di Gropius o per i mobili in serie: la quantità non sfugge al banale. Parlare di banale vuol dire parlare di kitsch, cioè attribuire un significato al cattivo gusto. Quando nell’Ottocento la parola kitsch apparve a Monaco di Baviera, essa significa “la vendita di qualcos’altro al posto di ciò che era esattamente richiesto” (Moles). Ovvero, il primo sintomo cosciente che può esistere di diritto una teoria dell’”autenticamente falso”. Da allora, specie nella Mittleuropa, il kitsch ha indicato sempre più esplicitamente quel tipo di produzione pseudoartistica detta dell’”orrido”, si tratti di pittura, architettura, design, letteratura, musica, cinema o altro. Vorrei qui formulare l’ipotesi di un passaggio dell’esperienza kitsch dal terreno “sociologico” a quello “progettuale” dell’architettura e del design, dal kitsch come mezzo di analisi sociale al kitsch come metodo di lavoro per coloro che realizzano oggetti: una presa di coscienza progettuale del kitsch. Se, infatti, si considera il kitsch come un’ottica quanto mai vasta e aggiornata per interpretare la cultura materiale che ci circonda, allora può essere breve il passo verso una “metodologia di progettazione kitsch”, cioè verso un kitsch culturalmente noto a se stesso. Una possibile cinica sconvolgente carta da giocare nel momento in cui tutti i metodi di progettazione segnano il passo, funzionalismo, tendenza, radicali compresi.
L’esplosione del kitsch moderno è a catena: perché non sfruttare il rapporto naturale, intimo e mitico che si instaura fra l’uomo e l’oggetto cosiddetto “brutto” in qualsiasi società di massa? Ad uomo kitsch, oggetti e case kitsch: esaltazione paradossale delle convenzioni, trionfo dell’autentico mancato, ribaltamento del buon gusto, disponibilità ad una finzione estetica corrispondente alla finzione della vita quotidiana: non impegnativa, non drammatica, accattivante, rilassante.
Orologi a cucù, cognac non francesi, piante grasse presso il divano, villette dei geometri, vedute del Vesuvio in plastica fosforescente: queste le idee usuali sul kitsch, di carattere kitsch esse stesse. Ma la fenomenologia del kitsch è ben più vasta e complessa, non si riduce alle torri Eiffel divenute bottigliette da profumo, né alle Madonne di Lourdes stampigliate sui costumi da bagno. “Il buon gusto non è poi una gran cosa: è solo una delle forme del cattivo gusto” (Moles). Allora del kitsch esiste pure un’altra faccia! Kitsch, per esempio, significa anche la presa di coscienza del quotidiano, è il rapporto esistenziale dell’uomo con l’estetica spicciola, è una sorta di immagine speculare all’arte. Il kitsch è un fatto politico direttamente legato alla forza della classe media, è il cavallo di Troia delle masse popolari per riappropriarsi delle arti. Il kitsch piace  all’uomo di massa perché è fatto da lui stesso, perché è un fenomeno di qualità per definizione. Se ha problemi con l’avanguardia e le novità, certo ha il merito di rifiutare l’isolata intelligenza del capolavoro. Ma proprio perché capace di instaurare le relazione “vere”, ora per ora, dell’uomo con gli oggetti che usa e che lo circondano, il kitsch rivela di essere quella “certa” estetica, quella reale capacità creativa, quel modello formale che si stabilisce davvero nel maggior numero di individui. Kitsch è arte applicata e adattata alla vita di “tutti” e di “tutti i giorni”. Il kitsch dunque è una presenza fortissima, ineliminabile, geograficamente estesissima e vincente: tanto vale trarne vantaggio. Ben vengano nelle scuole di architettura e di design dei corsi speciali sul banale, delle grosse discussioni sul kitsch.

Il progetto amorale
Proponiamo un obiettivo che sembra assurdo: quello,cioè, di ottenere in un progetto il “massimo possibile del cattivo gusto”, come dire il minimo possibile di qualità estetica. Cerchiamo di raggiungere questo obiettivo antieroico applicando tecniche e metodi rigorosi, critici e raffinati, una sorta di amorale, impossibile qualità alla rovescia. Pensiamo, per esempio, di progettare una casa. Possiamo allora introdurre nel nostro progetto una serie di regole, stilemi, forme e materiali tratti e elaborati razionalmente dall’infinito mondo della “fantasia banale”, tipica dell’uomo di massa. A modo suo, l’obiettivo è rivoluzionario: infatti la tradizione retorica e sostanza del progetto, l’ideologia del Movimento Moderno cui nessun progettista borghese (e anche rivoluzionario) viene meno, è quella che lo vuole elitario e demiurgo nei confronti di un fruitore da elevare all’uso di una casa supponente e paternalistica, da educare alla comprensione di una casa che non gli appartiene intellettualmente. Con il proposito che ci siamo dati, invece, l’operazione è opposta.
Qui il progettista tenta di rilevare e assemblare delle regole e dei criteri tratti dalla realtà di quel “quotidiano oggettuale” che già appartiene di fatto al mondo piccolo borghese, quella realtà infinita degli oggetti di serie e dei bisogni così come li ha selezionati, organizzati e indirettamente elaborati e voluti l’uomo di massa. L’uomo di massa, cui va attribuita una sensibilità creativa, che rifiuta la prima delle due case – quella del progettista borghese – e invece fa sua la seconda – quella di un eventuale ipotetico progettista piccolo borghese –. Proseguendo nel nostro assurdo obiettivo, applichiamo allora certe norme tratte dall’analisi del kitsch: come l’uso spregiudicato dei materiali finti (tipico il marmo), l’uso romantico dei materiali naturali (la fioriera in corteccia d’albero), l’aberrazione dimensionale (finestre in miniatura), l’accostamento stridente di colori, materiali e forme (rosa accanto al marrone, ferro accanto al tessuto, forme geometriche visibilmente errata), la retorica della tradizione e del dinamismo (base della casa in sasso, camino aerodinamico), l’estraniamento dei significati (soggiorni che sembrano taverne), la ridondanza delle quantità (eccesso di balconi), eccetera. Applichiamo anche con cura le norme edilizie correnti, gli standard usuali dei manuali dell’architetto e del geometra, e pure il mediocre mercato degli elementi edilizi industrializzati presenti nei cataloghi edili (serramenti, piastrelle, intonaci, coperture, gronde, maniglie, ringhiere, eccetera). Componiamo accortamente un concentrato iperrealista con tali complicati ingredienti (qualcosa di analogo alla “complessità” teorizzata da Bob Venturi), e la nostra casa risulterà come una specie di crostaceo, i cui pezzi e il cui insieme saranno polemicamente incoerenti. Avremo così raggiunto quel massimo di cattivo gusto che ci eravamo prefissati, avendo gettato a mare tutta la prassi e i valori tramandati dall’accademia e dal nostro classico background culturale di architetti, soprattutto la ricerca spaziale e compositiva, la morfogenesi tipologica, l’istanza funzionale.
Lo stile raggiunto nel progettare la “casa banale”, la casa come souvenir di se stessa, sarà cinicamente caotico, esuberante, iconico, psicologico, impotente e pessimista: ma sarà anche lo stile non violento della “coscienza felice”, tipica di quell’uomo di massa che sa di non potere più perseguire il miraggio proletario. Sarà accettato dalla sua fantasia perché in pratica prodotto da essa (e solo interpretato dal progettista), e potrà essere recuperato all’estetica elitaria proprio perché ne  postula la negazione. La coscienza della impossibilità di una ipotesi estetica estesa alla massa conduce alla formulazione dell’ipotesi opposta, quella antiestetica. A questo modo la progettazione banale e la amoralità stilistica possono essere intese come pensiero rivoluzionario. Esse danno luogo, infatti, ad una radicale inversione di tendenza nel concepire il progetto, perché rappresentano l’accettazione non consenziente, coraggiosa e contraddittoria delle condizioni concrete e limitate della realtà, dove ogni cosa, atto o progetto contiene un vincolo finito e determinato, è la risonanza banale di un trascendente non operabile e inaccessibile. “Nessuna esistenza e nessun atto umano può pretendere di avere un valore assoluto: il mondo e la vita sono cifre di un assoluto inaccessibile…nessuna filosofia potrà restituire, all’uomo che sente la propria esistenza come peccato, la salvezza, la redenzione e la pace…l’uomo che scopre la propria ineliminabile condizione di peccatore scopre davvero e stesso” (Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, 1959).
Come ha detto Paci per quanto riguarda il pensiero esistenzialista, anche l’infinito progettuale non esiste, un progetto non corrisponde mai a verità, esso è semmai solo un complesso di colpa, una concreta contingenza, una combinazione di fatti, una situazione vera in un dato tempo e luogo. Il progetto è un assoluto non perseguibile: tanto vale rinnegare il miraggio ontologico e aggredirlo per negazione, enfatizzando al massimo l’errore.

Alessandro Mendini
1979