Riccardo Dalisi

Alessandro Mendini, 2007

A me è sempre piaciuto fare dei disegni. Piccoli, schematici, un po' arguti. Pochi segni carichi di espressione. Credo che questa passione sia nata quando ero molto giovane, osservando i disegni di Steinberg, che mi piacevano molto. In quegli anni, per converso, mi meravigliava la posizione di Rogers, che aveva lo snobismo di dire: "Io non so disegnare". In effetti non sapeva tirare una riga. Sono sempre stato preso dalla mania del virtuosismo disegnativo. Mi piaccciono le discipline come “rilievo dei monumenti”: il che vuole dire andare ad esempio davanti a un'opera del Borromini e spaccarla, vivisezionarla, affettarla. E' un pericoloso piacere del disegno, che risolveva tutto nella mania della grafia.

Lo schizzo è per me il tentativo di trasferire su un foglio di carta delle idee “interiori”. Il disegno è nella mia esperienza, la matrice originaria del progetto, ma anche qualcosa d’altro: una specie di scacciapensieri, una scarica di tensione. Io sento il movimento della mano sul foglio quasi come una coreografia, come un balletto: è la mano che va avanti e indietro, torna su se stessa, e produce una specie di labirinto, una sorta di ragnatela…

Se riguardo i miei disegni con un minimo di metodo, mi colpisce la capillarità, la pulviscolarità di queste cose un po' nebbiose, spesso tremolanti e incerte. Dietro ci vedo il mio interesse per il puntinismo e per la Via Lattea, o il mio sogno di trarre l’ordine dal caos. Certo, a volte per me disegnare equivale a una pratica zen: ti metti lì a fare righe e righe come i bambini che fanno le asticine, e ti estranei dal mondo, è un modo di decantare il cervello. Poi però devo riconoscere, al di là del beneficio psicologico, che questi disegni sono per me molto importanti. Quasi più importanti delle architetture, degli oggetti e delle opere che ho realizzato: esprimono il mio istantaneo rapporto con il mondo e con le cose, sono un filo diretto, non mediato dai condizionamenti del reale.