Alessandro Busci

Alessandro Mendini, 2007

Da tempo pensavo di ragionare sulla figura del giovane amico Alessandro Busci, arrivato a collaborare nel mio studio alcuni anni fa come architetto. Un artista che mi ha sempre incuriosito. Devo dire che il suo lavoro mi sfugge, anche perché lo osservo sempre da un'ottica viziata, quella del progettista. E fra i nostri progetti Busci si è via via ritagliato una zona franca (al computer) dove i colori, i modelli e l'uso della prospettiva gli concedono abbastanza spazio per una virtuosa, per quanto controllata, possibilità di espressione e di visione. Ho notato spesso questo raffinato personaggio uscire dal mio studio (di architetto) con dei pezzetti di materiali, di campioni di lamiere lisce o stampate, fogli di fiberglas, residui di masonite, textures su superfici di ogni tipo: i materiali dell'architetto.

Ma poi lo ho visto anche ritornare qui dal suo studio (di artista), mostrandomi le immagini di pitture (di veri e propri “quadri”) dal tocco immediato e sintetico, dove i pennelli fanno strisciare con fatica i loro colori fluidi, acquosi e pastosi sopra alle ruvide, ostili e violente superfici reperite fra i componenti edilizi.

Penso stia in questa originale dialettica la soluzione del possibile conflitto di Busci fra l'anima dell'architetto e quella del pittore (e magari anche quella dello storico dell'arte). Un percorso ad ostacoli. Il riscatto, la sublimazione, e l'evanescenza del segno pittorico in contraddizione con la durezza del reale.

Dei segni delicati come da sapiente calligrafo, a delineare scuri bagliori, luci notturne, ipnotici paesaggi monocromi dal difficile presagio. Una visione cupa del dramma urbano del mondo. Una specie di de Pisis alla rovescia, dove la leggiadra coreografia dei movimenti del pennello di De Pisis in trance è sostituita da scenari di apocalissi metropolitane, da monocrome suggestioni liriche e teatrali.

Dei gesti che profetizzano dei mondi oleosi e petroliferi, delle atmosfere dove la speranza sussiste solo attraverso qualche rara concessione ai pochi tocchi gialli o arancio.

E comunque nessun senso di rimprovero, nessun castigo, nessuna retorica, in Busci anzi amore e grande dedizione in queste pseudo istantanee, in queste pellicole della nuova Milano. I paesaggi di Busci mi paiono frutto di lentissime maturazioni e sensibilità psichiche e mentali. Immagini avvenute e osservate dall'alto di un palazzo di Corso Lodi, da dove egli fin dai tempi del liceo (dalla finestra e dal tavolo della sua camera) ha guardato e metabolizzato tutte le possibili sfumature delle rotaie della ferrovia, dei cieli, dei lunghi muri, pali, lampade, nuvole, pioggia, asfalto. Fino al vicino aeroporto e alla vicina autostrada. Ma mai di una figura umana? L'osservatorio privilegiato di una romantica periferia, predestinata per lui a divenire il materiale immaterico da fare scorrere come una decalcomania lucida sugli scostanti supporti texturizzati. Per curiosa fatalità, dalla sua finestra guardando verso il basso, Alessandro Busci vede anche il cortile del mio studio. Ed io stesso, la mia psiche e la mia memoria sono intrise di quei Sironi, di quella cultura del paesaggio milanese cara a Busci, e di emozioni e malinconie artistiche maturate in me nello stesso suo pantano e limbo... Ma credo non basti ragionare dall'esterno sulla figura di Busci. La sua pittura (che impaurisce) va trasformata in esperienza. Può darsi che per capire davvero i suoi quadri e il loro messaggio, si debba “entrarci dentro”. Una lettura più profonda richiede un altro tipo di approccio: quello esistenziale. Ad esso non sono ancora pronto, ma avverrà, mi sto attrezzando. Ho pensato di organizzarmi per compiere una escursione (io stesso, proprio come persona) dentro, all'interno dei quadri di Alessandro Busci. Voglio capire. Da bravo borghese milanese (come del resto è Busci) fondato sulle più precise tradizioni, sto andando nei negozi “giusti” a fornirmi di quegli abiti e strumenti che immagino adatti a farmi sopravvivere nell'avventura. Maschera per l'ossigeno, abiti adatti al gelo o al torrido, eccetera, creme forza trenta per labbra e pelle, soprascarpe antisdrucciolo, guanti di amianto (non si sa mai capitasse di toccare qualche metallo), pile, occhiali ad alta protezione: un inventario di abiti e attrezzi precisi (ed eleganti) per accedere ad un habitat sconosciuto, che sicuramente desterà forti sensazioni. Certo un ambiente difficile, particolare, pericoloso. Ma forse invece non incognito, anzi quasi familiare, riconoscibile, anzi proprio ben conosciuto? Che grande desiderio, che grande nostalgia di intraprendere quella sconcertante immersione nello spazio cosmico-urbanistico del pittore-non architetto Alessandro Busci. Che grande voglia di verificare di persona. Di respirare le non immaginabili boccate di un'aria improbabile, al lontano suono di un'orchestra (certo della Scala?). E poi magari una sorpresa... cioè se invece dopo tanti preparativi, esplorando il mondo di Busci, scoprissi che era il caso di vestirsi in smoking? Le rare pennellate gialle e arancio: forse lontane, fresche energie di un sole nascente, anziché di crepuscoli della nostra civiltà?