La sedia e la storia del Design Italiano degli ultimi 50 anni

Incontro con Alessandro Mendini, a cura di Patrizia Scarzella, Luglio 2007
"The Italian Way of Seating, 50 Years of Italian Chairs", Inno Centre, Kowloon, Hong Kong

La sedia è un tema ricorrente nel tuo lavoro... Nel tempo ho disegnato varie sedie, però, sono tutte sedie sulle quali, praticamente, non ci si può sedere, o sulle quali si sta davvero scomodi. La cosa è intenzionale. Sono tutte sedie a carattere simbolico o emblematico, per cui non mi sono mai posto il problema se le mie sedie fossero comode, funzionali o vendibili. Si tratta di troni, di concetti, di espressioni, per il fatto che la sedia è uno degli elementi del design più connotati, più complessi e più significativi. Allora ho disegnato moltissime sedie nel tempo o con il legno, o con la paglia, o bruciandole, o considerandole delle superfici sulle quali pitturare, ed altro. Parlami della poltrona di Proust , il tuo progetto di seduta più famoso... Spesso mi capita di affrontare un progetto per via letteraria e non per via direttamente progettuale o disegnata. Anche con questa poltrona, che si chiama ‘di Proust', sono partito dall'idea di estrarre dai romanzi di Proust un simulacro, una forma, un feticcio di una poltrona adatta al personaggio Proust, con la sua aura di uomo legato alla propria psicologia intima. Sono andato anche a Parigi e dintorni, alla ricerca dei suoi luoghi. Mi sono progressivamente accorto che lui aveva avuto dei contatti con i puntinisti, pertanto poi ho creato un assemblaggio, una specie di collage tra una poltrona molto ricca di tipo barocco e una sovrapposizione su di essa di una pittura che è un particolare di un quadro di Signac, che rappresenta un prato. Quello che ho ottenuto è una poltrona, un oggetto un po' lievitante, privo di definizione dei suoi contorni, e pertanto, una specie di concentrato di energia coloristica un po' pulviscolare. Perché, secondo te, la poltrona di Proust ha avuto così successo fino a diventare un'icona fortissima, un simbolo del design italiano? Questa poltrona era stata pensata per una mostra a Bologna fatta insieme allo Studio Alchimia, che si era chiamata ‘La Stanza del secolo'. Poi è stata portata alla Biennale di Venezia, l'edizione curata da Paolo Portoghesi, nel 1980. Poi, ma anche immediatamente direi, è diventata un oggetto con un certo particolare fascino, a rappresentare, probabilmente, l'epoca del post-modernismo nel design. Intendendo con tale termine quella miscela fra nuovo e antico, tra fantascienza e storia antichissima, che poi è stata la caratteristica di una quindicina o ventina di anni di progettazione del design. Questa specie di icona ha avuto la sua fortuna e continua a produrre immagini dappertutto. Quali sono secondo te i punti salienti, più importanti, di questi 50 anni di design italiano? Il design italiano, più o meno dal dopoguerra, dal 1950, si può dividere in decenni. Il decennio degli anni ‘50 è caratterizzato dall'euforia della ricostruzione, cioè da giovani architetti che, non avendo lavoro di edilizia, si sono messi a progettare degli oggetti e da giovani, giovanissimi, piccolissimi industriali che erano i loro amici. Pertanto ne è uscito un nuovo sistema di oggetti, in un certo senso frutto della povertà, o della memoria della guerra, che è stato estremamente effervescente dal punto di vista della creatività e della fantasia. Dopo gli anni '50 sono subentrati gli anni ‘60, probabilmente anche con gli stessi architetti, però con altre situazioni dal punto di vista della produzione e dell'assetto sociale in Italia e si è trattato di un eccesso di consumismo. Pertanto si possono vedere gli anni ‘60 anche con degli aspetti negativi, ad esempio con l'introduzione della plastica non riciclabile. Questi anni ‘60 sono arrivati ad una sorta di crisi nel '68. Gli anni ‘70 hanno fatto vivere questa crisi e anche il consumismo in uno stato di tensione, che era anche di carattere politico, e, attorno alla metà degli anni ‘70, è cominciato il radicalismo del design, cioè, il contro-design. Quello che, volendo azzerare l'eccesso di produttività del mondo industriale, ha riproposto una specie di artigianato primordiale, con l'uso delle mani, con la riscoperta dei mestieri, con un collegamento con l'arte povera. Appena successivo a quell'epoca è il collegamento di questi contro-designer con il mondo dell'arte della trans-avanguardia. Negli anni '80, e per un pezzo degli anni ‘90, i protagonisti di questa grande trasformazione mentale, linguistica e figurativa sono stati prima lo Studio Alchimia e poi il movimento Memphis. Successivamente, conclusasi questa forma di neo-avanguardia, il design si è frammentato in una nuova generazione dell'industria post-industriale, con una specie di polverizzazione di oggetti di qualità, ma piccoli, elementari e quasi futili. In questi anni recenti, in cui in Italia non solo lavorano designer italiani, ma anche moltissimi designer stranieri, tutti i più importanti, si ha un proliferare di merce semplice, con un alto grado di qualità stilistica e con un bassissimo grado di impegno. Per cui oggi, il momento, dal punto di vista del design, è stilisticamente a posto, ma è socialmente negativo, se non per quella probabile generica tendenza a un certo impegno che ha a che fare con la salvaguardia del mondo nel prossimo futuro. Tu hai un'idea di come può evolversi questa situazione attuale, quale può essere una svolta possibile, o è impossibile fare previsioni? Si parla oggi di società liquida, dove le professioni vengono mescolate fra di loro, vengono intrecciate e perdono la loro identità storica e caratteristica, diventando "sotto" e "infra"-professioni, prive di identità visibile, anche dovuto alla virtualità. Questo fatto può essere per alcuni considerato positivo e per altri negativo. Dal mio punto di vista, la perdita di solidità concettuale delle professioni è un fatto negativo, perché fa perdere anche il senso della responsabilità, e del cosa si sta facendo. Perché, quando tutto fluisce e nulla si ferma, la responsabilità decade. Allora, un possibile spazio per un momento di nuovo impegno, probabilmente, lo si trova in un approccio olistico al progetto e al mondo della socialità. Nel senso che le professioni devono ritrovare il bisogno di essere morali in un mondo di guerra, di violenza, di generale cattiveria, cose che poi si riflettono anche nel modo con il quale i professionisti svolgono le loro professioni. Qual'è la caratteristica più peculiare che fa del design italiano un caso unico al mondo? Quando si parla del design italiano degli ultimi 50 anni non si può non fare riferimento al Rinascimento italiano. L'Umanesimo è la caratteristica storica dell'attualità dell'arte italiana e pertanto anche dell'artigianato italiano e poi del design italiano. La nostra chance, il nostro DNA di Italiani, come promotori di antropologia del design nel mondo, consiste nel riconoscerci rinascimentali. Il che vuole dire, con un'attitudine implicita a mescolare le arti fra di loro. Cioè, la bottega del Verrocchio era una bottega dove si faceva del cesello, si faceva dell'architettura, della fusione in bronzo, della pittura, si lavorava il marmo e queste cose si sono poi ripercosse nei grandi maestri del design contemporaneo, che sono poli-intellettuali e polimaterici. La sedia è ... La sedia, forse, ha una sua grande origine nel 1400, con la creazione della grossa sedia di legno, con tre gambe e con la spalliera rigida e un po' inclinata. Da quel momento c'è stato un continuo virtuosismo sui progetti delle sedie, cambiando i materiali e cambiando le situazioni stilistiche, passando al Neoclassico, al Liberty, fino alle sedie del dopoguerra. Le sedie sono state un'occasione di grandissima sperimentalità progettuale. Tanto è vero che si può dire che, attraverso la storia delle sedie, si può studiare tutta la storia del design e parzialmente dell'arte italiana.