Conversazione. Alessandro Mendini, Beppe Finessi

Alessandro Mendini, Beppe Finessi, 2007

Mendini. Il Futurismo, che è stato violento e fascista e teorizzava la guerra,  ha però esteso la generalizzazione delle problematiche a tutte le arti e tutte le politiche, ha espresso un concetto di visione futuristica del mondo al di là della ideologia, e ha proposto l’uso dei segni futuristi sotto forma di cosmesi.
Questa è una mostra estremamente divaricata nella scelta degli autori, quelli che hanno appartenuto a delle avanguardie, più o meno ne sono coinvolti. Avanguardie recenti o di una volta, partendo però dal futurismo.
Qui si esce in tantissime direzioni  che coinvolgono altrettanto il surrealismo, il cubismo, il dadaismo, così forse è troppo dilatata, fino a diventare onnivora.
Perché Arman? Perché fino a che tu dici certi momenti di Frank Stella, Zaha Hadid, se dici Sant’Elia o Chiattone, ma altri autori mi sembrano lontani, per esempio Luciano Fabro, magari ha delle cose che a me sfuggono, è solo un autore poetico, bucolico, veramente ellenico, non sono come dire, non c'entro con l'aggressività…

Finessi. Mentre alcuni magari, tipo Panamarenko e Piacentino, sulla vita che corre, ci stanno bene…

Mendini. Nam June Paik, nemmeno, forse rientra per certi concerti televisivi di carattere un po’ dadaista.
Ciò non toglie che la mostra e il suo titolo siano estremamente accattivanti.
Qui non ho visto citato Sottsass, e mi sembra strano, perché ad esempio la Memphis sicuramente ha dei rapporti visivi con il futurismo,

Finessi. Anche la vostra Alchimia…

Mendini. Io e Alessandro Guerriero e Alchimia non esisteremmo senza il Futurismo. Anche adesso sono un continuo quotidiano debitore del Futurismo, inteso come sistema calligrafico e alfabetico.
Però in quel momento là, più Alchimia che Memphis ha avuto delle radicalizzazioni ideologiche che hanno a che fare con le ipotesi di vivere in maniera radicale l’arte, non con l’ideologia politica.
Allora, entrando nel tema dell’energia metropolitana, le visioni urbane dei pittori futuristi, con questo sistema di caos che però era sempre reso anche simbolico, che poi era organizzato in strutturazioni geometriche come con Dottori con i suoi arcobaleni, con il frazionare la luce anche in maniera ottica, e questo senso di una città tormentata dalla velocità, ecco questa visione urbana è una visione veramente preveggente.

Finessi. Tu dici tormentata e non graziata?

Mendini. Tormentata. Anche il quadro “Rissa in galleria”…

Finessi. Lì c’è una linea di tensione, drammatica e tesa, e non  la positività di un’energia che produce, ma un’energia che mette in conflitto.

Mendini. Perché poi il futurismo è molto vario, per quanto ne so io, c’è il Futurismo meridionale, che è più agreste, quello che si è sviluppato intorno a Capri, per capirci, e poi il futurismo simbolico, per esempio Dottori, ma anche certi quadri di Depero che assomigliano un po’ a quei lilla, a quei gialli acidi di Sonia Delaunay,o dell'antroposofia cioè c’è dentro del simbolismo; per cui il simbolismo è anche un modo di vedere le panoramiche urbane dentro al futurismo.

Finessi. Con quelle viste bellissime dall’alto delle città, da dentro gli aeroplani, nelle cabine, gli aeropittori, sì Dottori, poi Tullio Crali, …
Ma nell’elenco di questa mostra abbiamo da Acconci agli Archigram, da Gehry a Superstudio, da Multiplicity a El Lissistky, ecc, quindi una città come un intreccio in cui la produzione dell’energia elettrica, ha reso possibile un cambiamento radicale della vita urbana.
La parola energia per me è l’energia elettrica, quindi quest’idea che le città comincino ad essere prima di tutto illuminate, quindi più sicure e più vivibili, poi la velocità e le macchine, quindi un momento in cui nell’arco di pochi lustri si trasforma tutto, rispetto a un prima che era l’ultimo momento di una società antica. Se dovessimo togliere dalle fotografie dei primi del novecento le macchine o i vestiti, sostituendoli con quelli di oggi, in fondo le visioni urbane sono quelle della società di oggi.

Mendini. Col futurismo forse si determina una specie di disfacimento dell’idea di sintesi dell’immagine di una città, e la città si polverizza in una pluralità di immagini assemblate, che poi è un concetto anche dadaista; in questo credo che i due linguaggi si combinino molto, però per esempio il Futurismo aggiunge il rumore, il rumore urbano, il sonoro, la musica come rumore, la fonetica…
Allora oggettivamente il Futurismo vede la città in una maniera così come la si può vedere oggi. Invece gli Archizoom tendono a un ordine concettuale estremamente geometrizzato, mentre Superstudio lavora anche di grosse espressività con grosse punte, e la punta è un gioco del Futurismo, mentre Archizoom non usa punte, usa i quadrati e i parallelepipedi.
Archigram è molto più organico, fa ricordare le visioni di Moebius, una specie di gioco alla Verne legato all’orbita della terra.
Zaha Hadid e Gehry mi sembrano piuttosto adatti ad essere qua dentro…

Finessi. Sì, in questo elenco alcuni autori, come Gehry o Hadid, sembrano aver tradotto, ottant’anni dopo, alcune di quelle visioni e di quei quadri in una rappresentazione finalmente tridimensionale. Altri, come gli Archigram, conservano di quelle visioni uno spirito ma non una traduzione letterale, linguistica o formale.

Mendini. Hai detto la parola giusta. Quando si parla di futuro del futurismo, ci dovrebbe essere di mezzo un collegamento con il linguaggio, perché è la forma più esplicita di reciprocità.

Finessi. Alla mostra di scultura di Boccioni c’erano delle opere che potevano essere dei modelli di Gehry

Mendini. Mentre Mario Sironi è un’altra cosa, con questa sua retorica del classico, la sua città statica.

Finessi. Con quella rappresentazione delle periferie, sì industriali, ma certamente sono un’altra cosa.

Mendini. Sironi ha condotto ad Aldo Rossi, Boccioni e Balla a Gehry.

Finessi. E’ strano come ci sia uno strappo di circa settant’anni tra alcune visioni e i lavori di oggi, e non mi sembra di vedere una continuità. In fondo l’architettura non era ancora pronta.
Si è costruito per settant’anni in mezzo, eppure stiamo dicendo che Gehry potrebbe essere vicino a un Balla e un Boccioni.

Mendini. Beh, c’è stato di mezzo un altro tipo di rivoluzione radicale che è stata il Bauhaus, il razionalismo…

Finessi. …che ha smorzato e trasformato tutto tendendo al metodo e al rigore, e vedendo le macchine come a un qualcosa non per produrre emozioni, ma per ordinare.

Mendini. Ha cambiato il linguaggio. Ma se tu prendi Mario Chiattone, è un po’ li a metà, è un autore molto interessante, però è lì a metà, come Sartoris…

Finessi. …come Ivo Pannaggi, che però è andato verso il neoplasticismo.

Mendini. Per esempio una specie di futurista tirolese è stato Piero Portaluppi,  che è stato davvero futurista in tanti particolari decorativi, ad esempio la proposta di utopie urbane all’infinito, un po’ wrightiane.
Oppure molto dopo ci sono state delle presenze pittoriche anche minori, come i Nuovi Futuristi, Lodola, la Bonfiglio, facevano una specie di arrotondamento soft della stilematica rigida.
Erano cinque o sei, uno si chiamava Pastel di Trento, che faceva dei quadri in panno, come i giubbotti di Depero, dei grandi arazzi.
Poi nell’elenco vedo Acconci, con la sua visione olistica da urbanista-architetto, questa presenza mi pare strana...

Finessi. …e la sua isola galleggiante a Graz…

Mendini. Che però mi sembra più vicina a Rudolf Steiner.

Finessi. Dulgheroff e altri sono di quegli anni ma riuscire col senno di poi a legarli a quel momento dal punto di vista del linguaggio è difficile. La verità è che quei quadri futuristi erano davvero incredibili rispetto all’architettura coeva, a quello che si costruiva, anche a Sant’Elia. Le costruzioni erano molto meno potenti, cioè tolta la Torre Eiffel, non mi viene in mente nulla di così forte trasformato in un momento della città, in architettura, rispetto alle visioni che quei quadri raccontavano.

Mendini. Questa specie di visioni apolcalittiche le puoi trovare nei sovietici, nel cubismo di Praga, nel villaggio antroposofico, un po' in Gaudì, nell’espressionismo, anche un po' in Mendelsohn.

Finessi. Sembra esserci stata a un certo punto una non capacità di portare sulla scala urbana attraverso l’architettura quelle visioni che invece in pittura e scultura avevano manifesti, opere fondative e tutto il resto.

Mendini. L’architetto futurista per definizione si dice che è Sant’Elia, che ha fatto disegni e non opere.

Finessi. Ma il problema è che lui non è riuscito a fare altro oltre ai disegni, o in fondo è la tecnica che non riusciva a sostenere quelle visioni?

Mendini. Forse è l’urbanistica che non riusciva a sostenerle. Perché poi la tecnica in edifici più contenuti è diventata Terragni, ecc, cioè ha condotto il linguaggio verso una direzione legata sia al classicismo che al fascismo che al razionalismo.

Finessi. Ma l’idea di Antonelli di fare una torre che sale il più in alto possibile è un’idea futurista, in fondo, raffinatissima e visionaria...

Mendini. Cioè l’edificio miracoloso… Sono fenomeni di ingegneria che colleghi più a Rogers, a Foster, a Piano, cioè a questo tipo di ipertecnologia del macroedificio

Finessi. Però pur rimanendo su un’idea di edificio abbastanza classica, le planimetrie le fruizioni la funzionalità, .., in fondo sono dovuti passare settant’anni per vedere questo visioni realizzate.
E’ abbastanza strano, un’arte così fondativa, e così importante per pittura e scultura, e anche così programmaticamente ed espressamente mirata al rinnovamento della città non ha dato in fondo grandi risultati. Mi vengono in mente anche quei progetti di Fiorini di quei grattacieli in tensostruttura, eppure erano delle grandi opere di ingegneria ma formalmente erano lavori da Levi-Montalcini, bravissimo ma ordinato. Tu dici che tra i due grandi momenti di rinnovamento ha vinto il Bauhaus, e quindi ha vinto un altro modo…

Mendini. Me lo fai venire in mente tu, ma sembrerebbe così. Cioè del Futurismo è rimasto il fatto concettuale della polverizzazione delle forme e del senso della velocità e della aggressività della metropoli. Dopodiché la metempsicosi: il passaggio dell’anima dalla bottiglia di Boccioni al Guggenhiem di Bilbao, l’ingigantimento di quella bottiglia lo ha fatto Gehry, che forse è un futurista, e non un post-futurista.

Finessi. Ecco la soluzione all’enigma. Semplicemente l’architettura futurista ha avuto la necessità di rimanere silente per settant’anni.

Mendini. Forse aveva bisogno della possibilità d’uso del computer per arrivare alla liberazione delle forme.

Finessi. Quindi da un lato ha potuto tecnicamente mettersi a fuoco grazie a delle tecnologie poi affinate, dall’altro però il modo di costruire gli edifici di Gehry o di pochi altri non è poi stupefacente, è lo stesso di trent’anni fa, a parte le lastre di titanio, magari un po’ più complesso, ma avrebbero potuto costruirli, magari con qualche difficoltà ma non troppe, almeno quarant’anni prima.

Mendini. Tu fai una critica negativa a questo tipo di architetture che sono esagerazioni linguistiche a cui non corrisponde una vera strutturalità, perché allora da questo punto di vista è più mirabolante Felix Candela…

Finessi. …al limite l’allievo Calatrava, più formale certo, ma…

Mendini. Questa è una critica a questo“futurismo moderno” della macro-architettura, perché se tu prendi lo stadio di Pechino di Herzog & De Meuron, è il più grande spreco d’acciaio della storia, privo di senso e violento, perché un conto è farlo grazioso come soprammobile, e un conto è realizzarlo.
Per cui allora potrebbe esserci un senso del futurismo contemporaneo dell’architettura delle star, da guardare in termini critici.

Finessi. C’è anche quest’altra cosa: se tolgo i rivestimenti, “i vestiti”, alle architetture di Gehry, vedo delle strutture elementari e tradizionali, più articolate sì ma non vedo cose incredibili e stupefacenti, non vedo cose da dire “ho capito perché è riuscito a farle solo nel 2002 e non trent’anni fa quando ha cominciato”, e dall’altro - guarda caso - c’è quasi un’inefficacia degli spazi interni, a parte qualche caso, come la Concert Hall della Walt Disney particolarmente riuscita nella sua funzionalità e nell’acustica, però ho in mente il Museo Vitra o il Guggenhiem di Bilbao e l’inefficacia di alcuni spazi interni.
Cioè, la tecnica impiegata dimostra la non ragionevolezza di questo lungo periodo di quarantena di quel pensiero, perché in fondo avrebbero potuto farle i russi degli anni venti e trenta, magari in legno, ma farle…
Cioè in fondo ci sono alcune cose che non tornano: la tecnica non è allineata a quello spunto, a quel pensiero, a quel desiderio, a quella tensione, e continua ad essere comunque vecchia, e forse proprio per quello, anche a scapito della funzionalità, non è che non funzionino, funzionano come funziona ogni cosa, è chiaro che dentro a uno scatolone qualcosa ci sta sempre, però da lì alla perfezione, …, in fondo le cose di Calatrava funzionano tutte perfette.

Mendini. Però anche Calatrava fa molto styling, rispetto a Candela, perché lì siamo nel campo del virtuosismo ingegneristico, e Calatrava esagera, e fa un gioco quasi un po’ osseo, è organico, è mirabolante.
Ma mi pare che noi stiamo dicendo che esiste, oggi e non prima perché c’è stata la quarantena, un certo tipo di architettura Futurista molto importante che però ha i suoi difetti…

Finessi. Quella più futurista è quella che mostra dei difetti, cioè Gehry. Quella che possiamo considerare futurista nell’animo e forse un po’ meno dal punto di vista linguistico, di alcune cose di Foster, Nouvel, è un’architettura che di alcuni concetti del futurismo conserva gli obbiettivi, ma mantiene anche tutto quello che può avere imparato dal Bauhaus…

Mendini. Cioè quello che collega l’architettura di oggi al futurismo è l’enorme dimensione che crea la meraviglia, però anche i disegni degli espressionisti avevano questa meraviglia, quei piccoli disegni di Mendelsohn, di Poelzig, di Taut, anche acquerelli, disegnini di architetture di montagna, forse si collegano un po' a Libeskind, cioè a una specie di animismo dentro l’architettura, al simbolo dell’anima, perché invece quando vai nella direzione di Foster e di Piano l’anima si appiattisce, sono molto freschi, positivi direi anche, ma sul piano del simbolo scarsi, di grandissima qualità probabilmente nella riorganizzazione di una crosta sfasciata del mondo, ne vengano di cose del genere, ma sono fredde…
Quando Piano dice “faccio un grattacielo che vola”, poi l’ha messo su pilotis, la parola non è sufficiente, non sto criticando Renzo Piano, che è bravissimo, ma, questo è empirismo che non appartiene ai latini.

Finessi. Tanto è vero che poi in alcune opere “minori”, come a Lione, quando c’è anche meno ambizione anche della committenza, diventano lavori quasi anonimi. Lavori sempre perfetti, ma a volte…
Mentre ci sono alcuni autori che scadenti non lo sono mai. Gehry, appunto, mi mette sempre in moto il cervello…

Mendini. Perché ha una visione scultorea del mondo…

Finessi. …con questa idea di riuscire a portare fino alla quarta dimensione con una disciplina per antonomasia sulle tre come l’architettura.

Mendini. Per cui abbiamo detto che esiste un’architettura futurista oggi, più di prima.

Finessi. Mentre non c’era stata per ottant’anni, per colpa di Gropius!

Mendini. Questa è la conclusione.

Finessi. Allora caro Sandro, questo futurismo, questa energia metropolitana…

Mendini. Sì, energia, energia, ricordiamoci che esistono tanti tipi di energia, quella positiva, quella negativa...
Finessi. E’ cambiato tutto o non è cambiato sostanzialmente niente nelle città, da un secolo a questa parte: la vita, il lavoro, l’immagine della città stessa. Si continua a vivere in case non così diverse, si usano ancora ascensori, ci si muove ancora con mezzi meccanici, ci si sposta ancora per lavorare… In fondo non siamo riusciti ad andare troppo avanti rispetto alle grandi trasformazioni dell’inizio del secolo, oppure, semplicemente, erano già troppo avanti allora, erano già il futuro…

Mendini. Le tipologie sembrano invariate, ma l'intensità è diversa, le grandi migrazioni scardinano l'essenza di quelle tipologie.

Finessi. Ma anche la città come luoghi principale che chiede e brucia energia, non solo quella elettrica! Città che possono bloccarsi e scivolare nel panico per un black-out, città che per sopravvivere al loro ritmo di vita devono chiedere sacrifici a tutte le realtà extraurbane intorno. Nelle città si consuma la maggior parte di energia del pianeta…

Mendini. Certo hai ragione, la megalopoli brucia il proprio consumo...

Finessi. Questa energia brulicante, questa frenesia, mi vengono in mente i disegni del tuo amato Steinberg, o quei quadri di Costantino Nivola, oltre che ovviamente le “risse in galleria”: la città come luogo di incroci, velocità, colpi d’occhio, intese, ecc.

Mendini. Il fascino della concentrazione urbana è indubbio, l'altissima invenzione combinatoria, l'opposto della dilatazione, è quasi un fatto satanico

Finessi. E poi oggi, con il dramma del tempo che corre e dei minuti che mancano.
Mi pare che il problema della contemporaneità sia che bisogna fare tutto contemporaneamente: quindici anni fa Ettore Sottsass, guardando un fax appena arrivato diceva “vedi, adesso quelli si aspettano una risposta in poche ore, mentre io continuo ad avere i tempi di reazione di qualche anno fa, ho bisogno di tempo per pensarci”. Noi oggi mentre facciamo qualunque cosa anche importante dobbiamo dare altre risposte su altri argomenti, attese a cui non possiamo dire di no, dobbiamo fare questo e quello, sempre e quasi insieme, ovvio con il rischio di fare meno bene, forse con il privilegio di riversare contributi diversi in territori lontani (contaminando, si direbbe).

Mendini. Con queste parole tu poni il canovaccio per la storia di tante tragedie umane, oppure di tragi-commedie, spesso dentro tale intensità di relazioni urbane i cervelli friggono...

Finessi. E questa magia delle città viste dall’alto: gli aeropittori certo, Crali, Dottori, ma anche Le Corbusier che nel suo libro “Aircraft” diceva l’aeroplano accusa l’urbanistica… Abbiamo con gli anni visto le città dall’alto, in ogni modo. Con le aerofotogrammetrie, oggi con il satellite… Banalmente, sono cambiati i punti di vista sul mondo, e quei quadri meravigliosi non smettono di essere attuali…

Mendini. L'allontanarsi dell'uomo dalla superficie della terra per guardarla dall'alto ha sempre avuto un fascino incredibile dai tempi della mitologia. Qui i futuristi hanno avuto molta preveggenza.

Finessi. La città. Quante cose cambiate davvero in questi ultimi quarant’anni anni? In qualche modo, dopo i sogni radicali e le utopie dei Sessanta e Settanta, e gli anni Ottanta che sono stati anche un ritorno al pragmatismo (anche attraverso l’utilizzo della storia con il Post-Modernismo), oggi si sono viste realizzate alcune visioni “futuriste” o “futuribili”. Opere come il Grande Arco a Parigi, ma anche il progetto di un grattacielo senza fine di Jean Nouvel che sfuma nel cielo, o sempre Nouvel con i progetti di architetture dove le scritte luminose in movimento danno informazioni e parlano alla gente, alla Jenny Holzer; o fino al suo Kilometro rosso sull’autostrada vicino a Bergamo… Tutte architetture tra audacia e visionarietà che sfruttano la tecnologia per produrre stupore e informazione, immagine e comunicazione…

Mendini. E' vero, sono suggestioni legate alla poetica della fantascienza, Nouvel in questo è esemplare.

Finessi. Ma non solo Nouvel, ovviamente. La Nuvola di Fuksas a Roma sembra un disegno tra Prampolini e Munari…

Mendini. Certo, anche Fuksas e anche Rem Koolhaas.

Finessi. Ma anche i tuoi progetti, dal museo di Groningen in poi (ma anche prima), dove il lavoro che si intreccia con altre teste è un modo assolutamente nuovo di lavorare controllando e delegando insieme, un modo del “futuro”, che sente e registra le tante energie, quelle potenziali e quelle messe in gioco.

Mendini. Se vuoi, forse, però quanto ai miei metodi progettuali, mi sento più vicino alle botteghe del rinascimento che non ai futuristi. E' nell'ambito della stilematica che io sono legato a una specie di mamma futurista.

Finessi. E poi non dimentico il tuo Arcobaleno a Münster: sembra un quadro di Dottori! E poi tu hai sempre pensato che anche il colore dovesse essere un elemento importante del progetto.

Mendini. Sì, è vero, ma anche qui siamo nel campo dei colori e dei segni.

Finessi. Dal colore alla decorazione. Tu dici sempre “risolvere la funzione è facile, risolvere la decorazione molto più difficile”. In fondo se è vero che il Bauhaus, con il suo rigore e la funzione messa al centro, ha vinto sulle libertà del Futurismo, è vero che tu sei tra gli alfieri di un rimando a quel pensiero “futurista”… Un modo in cui tutto dialoga con tutto, con continui flash, ping-pong e rimbalzi tra un pensiero e un’azione, e infiniti giochi di sponda. “Tutto”, come avrebbe detto Boetti. Il tuo agire, continuamente sostenuto da scritti (potremmo dire “manifesti”), è un modo globale, totale, a 360 gradi, di lasciare segni.

Mendini. Sì, ora capisco meglio quello che dici: per me vale un assemblaggio fra umanesimo e futurismo, se questo paradosso può avere un senso.

Finessi. Confermo. Tu sei un Futurista. Anche il tuo vestito con tutti i loghi dei tuoi clienti è un gesto di chi può permettersi un certo tipo di esposizione senza farsi sporcare dalle logiche del mercato: tu sei più forte di loro, e così puoi lavorare per loro…

Mendini. OK, forse, ma non sono io il tema del nostro discorso, ora torniamo alla città.

Finessi. Torniamo alla città, e al rapporto tra artisti e città che si è ulteriormente consolidato. Oggi molti di loro lavorano sulla città e sull’architettura. Da Vito Acconci, ormai sempre più architetto, ai tanti graffitisti dagli anni ottanta in poi, fino alle visioni stroboscopiche di Patrick Tuttofuoco. E quanti altri, tra luci e movimento, tra interazione e dialogo con il pubblico. Sono tutti al servizio di un sistema anche economico o è il sistema della città, e quindi anche l’economia, che rende possibili (e al limite informa) quelle espressioni?

Mendini. Nel sistema di potere che sovrasta la città come una cappa di piombo irrigidendone la dinamica, gli artisti trovano spazio in alcuni vuoti, adatti a divenire emblematici. Gli artisti nella metropoli sono dei rivitalizzatori critici delle energie più positive.

Finessi. Cosa ci chiede la vita in città, ancora? Aggiornamento, flessibilità, dinamicità… Ognuna di queste caratteristiche sembra indispensabile…

Mendini. Progressivamente l'uomo virtuale sembra avere desensibilizzato alcuni dei suoi principali e intimi aspetti arcaici. Stanno subentrando nuove sensibilità che ancora non comprendo. Viene sempre voglia di criticare i nuovi atteggiamenti, ma vale la pena di fare maturare questa trasformazione. Anche se è già molto evidente che il suo aspetto più negativo è la violenza.

Finessi. Ma questa velocità/frenesia/ritmo è davvero così necessaria? A me pare che in fondo potremmo certamente rallentare, anzi forse dovremmo proprio farlo. A ognuno di noi sfugge qualcosa.
E’ come se tutti noi avessimo una pellicola con sensibilità sbagliata, un otturatore tarato su tempi lenti, e così molto di quello che ci sfiora ci sembra mosso…

Mendini. Ricordiamoci che l'energia metropolitana della città futurista si risolveva in immagini cristallizzate!

Finessi. Tanto è vero che di questi ultimi anni sono Slow Food, o libri sull’Elogio dell’ozio. Sì, qualcosa sembra voler cambiare. Necessità o moda?

Mendini. Sono certo che una riscoperta della lentezza favorirebbe la salvezza del globo. Al di là delle mode.

Finessi “Già, è tutto qui: ancora” Leonardo Sciascia.