Aldo Rossi

Alessandro Mendini, 2007
Annisettanta. Il decennio lungo del secolo breve. Triennale di Milano, ottobre-marzo, 2007

“La casa lontana” è il titolo di questa installazione pensata per contenere alcuni bellissimi disegni di architettura di Aldo Rossi fatti negli anni '70. Una casa schematica, con tetto a due falde, piccola e intensa, la citazione di un freddo tempietto rossiano. E dentro di essa un corpus di disegni fra i più importanti e suggestivi della “architettura disegnata”. Disegni caldi, molto caldi, con colori arancio, giallo, rosso, nero e azzurro, ad infuocare con ombre, luci e tramonti le monumentali scenografie del suo mondo “pensato”. Scheletrici graffi e grafie nere per rivisitazioni romantiche di vie, piazze, statue, silos e ciminiere come  Sironi e come De Chirico. La “lontananza”: è una delle suggestioni che sempre mi ha colpito nella poetica di Aldo Rossi. Ovvero lo scarto metafisico del senso delle sue immagini rispetto al caos del mondo reale, e l'evocazione di scenari in attesa, lontani, immobili e silenziosi, dove esistono quella arcadia e quella pace che oggi si pongono solo come miraggi. Disegni, cioè, di miraggi architettonici. Un coinvolgimento nelle geometrie e nei colori delle proto-forme dell'architettura, assunte come garanzia di collegamento con la profondità della storia. Garanzie reperite anche nei materiali e nelle tecniche proposte, anche esse basiche e lontane, così distanti da risultare incontaminate e purificate, come partecipi della geografia dei mondi e della costa terrestre. Lontananza fuori dall'iper-realismo del tempo corrente, ma invece dentro alla misura senza mutamento della grandiosità dello spazio. Leggo in questa ottica l'eccezionale sequenza dei disegni di Rossi, espressi come un continuo, autonomo ed intimo intreccio compiuto attraverso, sopra e assieme ai suoi amati e spartani spazi architettonici realizzati. Ricordo quando chiesi ad Aldo di disegnare una caffettiera.  Pure quella occasione innescò in lui un forte innamoramento, che diede luogo a tanti schizzi con skyline di città lontane e solitarie, prive di persone, protette da visionarie enormi caffettiere fatte come cupole, come oggetti-colosso, basici, potenti e misteriosi. Il piacere e il desiderio, impossibile nel reale, di vedere nell'astratto compiersi la propria urbanistica, tradotta poi sotto forma di micro-urbanistica, di aberrazioni dimensionali, di oggetto casalingo di acciaio. E poi la “tenerezza”: un altro aspetto sub-liminale della sua opera. La caffettiera, l'orologio, il tavolo, la sedia, le cabine dell'Elba: i ricordi classici della felicità da bambino, di una estrema e  tenera spensieratezza autobiografica. Che alla fine però anche si indurisce, si trasforma e si ribalta in una rappresentazione tragica, in una nera rozza calligrafia ipnotica, quasi litografica, quasi da grafitista, in un'esigenza di terapia esistenziale. Aldo Rossi più Mario Sironi più Giorgio De Chirico più Jean Michael Basquiat? E infine il senso meccanicistico, ingegneristico e scientifico sempre presente nei suoi disegni-progetto, spesso decomposti nella stessa tavola e ricomposti sovrapponendo, in una sintesi cubista dell'insieme, piante, alzati, sezioni, vedute prospettiche e a volo d'uccello.
Un metodo di sequenza, di racconto descrittivo, tanto adatto ad essere finalizzato alla realizzazione, quanto ad essere percepito come autonoma formula estetica e pittorica, come segno, teoria, organigramma di ciclopiche stereometrie piranesiane o da Jules Verne.