Caro Argan

Alessandro Mendini, Domus 615, 1981

Caro Argan,
l bene e il male sono dovunque, non solo nella politica, ma anche nella cultura. Io stimo molto l’attività dei politici onesti: essi sembrano lavorare su immense lastre di ghiaccio in salita, e quando con enormi fatiche si trovano vicini a un obiettivo, precipitano inesorabilmente a fondo valle a causa di qualche cataclisma dalle dimensioni bibliche. Il loro lavoro è logorante e senza fine: vedi l’apocalittico caso del recente terremoto nel sud Italia, che ha ricondotto al medioevo il secolare tentativo di riscatto di un popolo sfortunato. Ecco, vorrei concentrare l’attenzione su questo singolo fatto: tu sei uno fra i più lucidi analisti, fra i più grandi critici d’arte del nostro tempo. Ma fra essi tu hai una ben strana particolarità: tu sei il solo con l’esperienza di essere stato sindaco di una delle più drammatiche, delicate e irresolubili città del mondo, addirittura di Roma. Come si conciliano il tuo «io» di studioso e il tuo «io» di politico? Hai passato moltissimi anni come storico dell’arte, del design e dell’architettura, in particolare come specialista dell’urbanistica antica e moderna di Roma. Poi hai accettato il trauma, il gap psicologico dei tre concentratissimi anni trascorsi come governatore della cosiddetta capitale del mondo. Addirittura hai concluso questa esperienza con delle dimissioni cariche di esemplare rettitudine, e da essa esci ricco di importanti verifiche da riversare ancora nel tuo «io» culturale. Un esempio quasi unico, il tuo, di gestione positiva di quel binomio «potere culturale e potere politico», di solito inconciliabile. Tu stesso sostieni che un intellettuale in veste di politico attivo è una ipotesi paradossale: è accaduto di recente a qualche utopista demagogo come Senghor in Senegal o Malraux in Francia. Senghor sostiene di esser un dilettante della politica, e tu dici di non essere nato con la vocazione dell’uomo politico. Infatti la vocazione di un umanista, un letterato, un artista è meditativa, introversa, sofisticata, e basata sulla precisione di obiettivi certi, mentre la vocazione del personaggio politico è estroversa, sfrontata, plateale, cinica, e basata sulla approssimazione di obiettivi sfuggenti. Ma c’è un fatto importante. La tua principale teoria, maturata nel tempo lentamente e coscienziosamente dice che la «città» è l’esempio più completo di opera d’arte, che la totalità fisica del fenomeno urbano (fatto di persone, oggetti, edifici) è la più civile espressione di opera d’arte dell’epoca contemporanea. Questa teoria ti ha dato la chance di governare Roma, pure restando sul tuo terreno introverso di critico dell’arte, senza fare compiere scarti metodologici al tuo pensiero, dato anche il caso che Roma è una città speciale, tutta fatta di «monumenti». Tu hai inventato questo slogan: «Roma: gente senza casa e casa senza gente», in coerenza con l’altra tua teoria, che l’arte è morta e che la crisi della città è definitiva. Prima sapevi, come storico dell’arte, che la città è malata; ora sai come politico, di quale malattia essa muore. Hai conosciuto dal vivo (non come studioso, ma su drammi reali) i retroscena delle baracche, degli sfratti, degli edili senza lavoro, dei ricatti degli speculatori, gli sconfinati intricati sottosuoli morali di cui è composta una metropoli, e ora sai che «la storia della città non è catarsi, essa è violenza e terrore». Ma a noi progettisti tu hai dimostrato che si può sperare in un’epoca di gestione saggia e culturale della politica: senza la quale saranno davvero molto scarse le prospettive di salvezza urbana.