Cosmesi Universale

Alessandro Mendini, 1981
Supplemento. a Domus N° 617, 1981

Vorrei raccontare un poco cosa passa in questi mesi per la mia testa di architetto, quando mi metto a fare il mio mestiere, cioè a disegnare le cose che adopera la gente, non solo gli edifici, ma anche caffettiere o mobili, cappelli o magliette. La mia prima fissazione è questa: io sono affascinato dall’idea del “cambiamento”. Capita ancora oggi, ma fu una regola nel passato, che chi lavora (chi disegna) abbia in mente di fare una cosa vera, certa, esemplare e valida per l’eternità, una cosa il cui senso non abbia mai a cambiare. Per me è tutto l’opposto: in questi tempi che non si sa bene dove si va, pochi minuti dopo avere fatto un disegno – che sono certo era attuale e assoluto mentre lo eseguivo – non mi attrae più, è già scaduto e sorpassato, spesso non mi piace nemmeno di vederlo realizzato nell’oggetto corrispondente. Perché delle cose mi importa più la mutazione che la stabilità, più l’indeterminatezza che la certezza, più il senso barocco che quello razionale. Mi attrae il fatto che il mio disegno cambi continuamente, sia un avvenimento provvisorio, caduco e artificiale, poco legato alla statica freddezza del reale e dell’autentico, legato invece alle effimere vibrazioni dell’apparente e dell’ignoto. Forse voglio fare prevalere la labilità dei sospiri della vita sulla compiutezza della morte, un disegno amoroso su un disegno funzionale. E’ per questo che cerco di pensare all’architettura così come uno stilista pensa a un vestito, e che considero il vestito come la più piccola architettura, il più piccolo e virtuosistico spazio costruito attorno alla persona, intimamente aderente al suo corpo: un abitacolo libero e cangiante all’infinito secondo l’anarchico gioco del “decoro”. Ecco allora la seconda fissazione nella mia testa: che oggi la decorazione possa prevalere sulla progettazione. E mi dico: magari anche l’architettura avesse le sue sfilate, avesse un carattere stagionale, cambiasse così come i decori su una gonna! I decori svaniscono nel nulla con la velocità con cui arrivano, e in quel transitorio momento in cui vivono ci piacciono morbosamente, sono come la neve, i coriandoli, i festoni, le squame, che rendono energetiche anche le strutture più fredde del nostro quotidiano. Cedere a una totale decoratività del mondo, significa prendere atto che gli uomini non sono in grado di comunicare nel profondo, che nella sostanza intima sono solitari, ma che quello che può entrare bene in circolo fra loro è la pelle, la superficie: mi attrae, per così dire, la “profondità del superficiale”. E poi, mi dico, la decorazione è una esibizione di massa, perché tutti sanno decorare, e se il progetto coincide davvero col decoro, ne consegue che tutti sanno progettare. Un’altra idea: penso che siamo in un’epoca dove il mondo sembra stabilizzarsi in una situazione di caos controllato, dove la vita si ripropone come fantasia, quella che il mondo razionale ci aveva negato. Ma il disincanto dell’uomo nuovo lo garantisce ormai dal rischiare fantasie troppo intense, drammatiche o impossibili. Sono finiti i tempi delle rivoluzioni radicali, delle trasformazioni sostanziali: l’accelerazione dei tempi – che fa scadere ogni valore nello stesso istante in cui viene proposto – ci mette di fronte a un modo nuovo di intendere le cose, quello della “fantasia limitata”: limitata perché estesa a tutti, perchè solo decorativa, ripetitiva. Ecco infatti l’ultima fissazione quando io disegno: penso che tutto quello che posso fare già esiste, che ogni nuovo disegno è sempre e solo un “ridisegno”, che tutte le forme del cosmo appartengono a un flusso senza fine di “cosmesi universale”, polvere luccicante, pulviscolo, illusione sui corpi, sui vestiti, sugli oggetti, sugli edifici, sul mondo.