Caro Vincenzo Agnetti

Alessandro Mendini, Domus 622, 1981

Forse proprio perché io ci provo senza esserne capace, ammiro quelli che vivono molto vicino a pericolo, che forzano al massimo le loro possibilità, oltre il limite della sicurezza fisica e mentale, rischiando la rottura, o la morte. Queste persone, come te, mi lasciano con il fiato sospeso, mi sembrano destinate a dirci le cose più importanti che dobbiamo sapere. È solo in tale condizione, credo, in quello spazio e in quel tempo che si percepiscono le cose più importanti del mondo. Tutti gli uomini, in genere, si creano dei margini di sicurezza, vivono una vita attutita dentro ai rassicuranti limiti dei problemi finti o secondari. «Pensare», diceva Savinio, «vuole dire pensare alla morte». Pensare ai problemi finti, infatti, è la salvezza di tutti gli uomini, anche dei grandi uomini, che messi di fronte a una vertigine quotidiana dell’ignoto, non riuscirebbero a resistere, a rendere normale e percorribile la vita. Ma alcune persone, emarginate e segnate, crudeli e rigide con se stesse, affrontano di petto i problemi veri dell’esistenza, fanno da disperate avanguardie a noi tutti, sono preposte a farci intravedere l’eternità: fra esse per esempio il diabolico Nietzsche, oppure l’ispirato Dreyer, o il disperato Beckett e l’ambiguo Bacon, oppure Buster Keaton, questi analisti, questi sismografi dell’intelletto; ma anche i mille dementi abbandonati nei manicomi, ognuno alle prese con i suoi personali mezzi di comunicazione. Fra questi malati d’amore ci sei tu stesso: lo dimostra, oltre alla tua tragica vita di «poeta da guardare», anche la tua morte logica arrivata non per caso, istantanea e solitaria, alla fine di questa estate, sotto il cielo del parco di Milano. Morte che non sarebbe venuta se tu non l’avessi sempre adulata, giocata, prevista, attesa, amata, come mi dicesti proprio due giorni prima di morire, nell’estenuante eccezionale colloquio, dove mi descrivesti il tuo ultimo lavoro. Durante la tua vita qui sulla nostra terra, tu hai continuamente fatto ipersensibili incursioni nelle zone impervie dell’altro mondo, restituendocene nelle tue secche opere i brividi, quasi con l’aspra indifferenza di quando partivi alcuni mesi per New York. Allora la tua morte non è poi una cosa troppo strana, ci siamo abituati; ora che resti più a lungo oltre quella frontiera nera dove sempre andavi, i tuoi lucidi messaggi, coscientemente asistematici sembrano raggiungerci ancora. Quando, come te, si vive nudi su una sconfinata lastra di ghiaccio meccanico, nel vuoto al di fuori del potere, in una interminabile notte in fondo al pianeta, quando si usano durissime lastre nere per trasmettere dei codici cifrati, quasi graffiati con le unghie, fino ad arrivare alla luce, evidentemente vuole dire che si è deciso di rischiare tutto, anche la simpatia e l’ironia. Il tuo ruolo, la tua tremenda vocazione, è stata la dimostrazione artistica del «teorema solitudine». Tenendo strette la mie mani con le tue mani energiche e fragili, aguzze e morbide, asciutte e bagnate, intollerabili e amorevoli assieme, mi dicesti in quel colloquio: «non potrei mai sapere quanto sono solo, questo lavoro che ho qui a metà “Il Lucernario”, lo dimostra: il lucernario è il simbolo architettonico della solitudine, è quella realtà ambigua, trasparente fra terra e cielo, quel soffitto sperduto sulla sommità degli edifici banali, dove vivono i Solitari». Si tratta forse dell’opera più complessa, letteraria e spaziale di Agnetti, rimasta drammaticamente incompiuta, ma tutta descritta da lui, che il lettore di Domus ha l’occasione di vedere per primo, pubblicata in questo numero.