Il mio arredo

Alessandro Mendini, Domus, 624, 1982

Il mio arredo

Iniziando ufficialmente a parlare su Domus di un problema tanto delicato come quello dell’arredamento, sento la necessità di compromettermi con il lettore, gli voglio descrivere nel bene e nel male il luogo dove io stesso vivo. Si tratta di un luogo in grado forse di indicare una delle ipotesi sulle quali lavoreremo, quella di un arredamento “sensitivo”.
La mia casa, come quella di tutti, è un magazzino di tensioni, di ideali, di reliquie, di programmi e di banalità quotidiane. La mia casa non è mia, ma è stata ed è l’abitacolo del gruppo cui appartengo. E’ un “progetto non progetto” in perenne movimento, una stratificazione di interventi, tracce di un progetto collettivo, che vorrei chiamare “ermafrodito”. Come architetto, però, non posso negare di avervi compiuto un atto disciplinare, un progetto di immagine più consapevole di quello delle altre persone di casa. Al mio arredo mi piace pensare, comunque, non come architetto, ma come individuo che nello svolgersi della sua vita comunica di volta in volta con i luoghi dove vive.
Il mio arredo è come l’acqua per un pesce: elemento vitale, inviluppo inconscio, situazione ora dominata oro subita, ma sempre essenziale. Non ricordo la mia prima latente sensazione ambientale, ma mi è stata descritta bene da mia madre: essa risale al 1931 quando vissi i miei primi giorni chiuso fra due poltrone Frau, affiancato da due bottiglie di acqua calda, nello stesso chiaro grande locale a bowwindow di una casa borghese a Milano progettata da Portaluppi, che ancora oggi è il soggiorno che uso. Un soggiorno che appare per me come un fenomeno a ciclo chiuso, una rete spezzatasi molte volte ma sempre ricucita e capace di filtrare, di fare respirare tutti i miei avvenimenti: si tratta, per così dire del “soggiorno della mia vita”, che amalgama tutti i miei personaggi e gli oggetti salienti. Da bambino vivo in un sistema di oggetti protettivo e retrogrado. L’”arredo del padre” è severo, ostile, realista e scostante come un museo, per via dell’indiscusso rispetto per i mobili antichi “da non toccare”. Il mio primo letto, fatto da un famoso falegname libero interprete di strani stili, è come un Rococò Islamizzato la cui immagine di gesso accompagna la mia timidezza notturna fino all’università, salvo la guerra. Gli arredi dei nonni sono luoghi romantici, disponibili per me e i miei fratelli alla fuga fantastica. L’arredo dei nonni di campagna sono gatti, solai, cortili, mastelli da bucato, scale e cucine sprecate, sono mistero, sensualità e grandi dimensioni. L’arredo dei nonni (e poi zii) di città non è dilatato, ma compresso e di tutt’altro genere. Nel loro appartamento fatto in moderno Settecento Tirolese, collocato sopra al mio, le mie sensazioni di arredo hanno come fulcro l’”Apparizione” di Savinio, quadro inquietante appeso a un palmo dal mio naso quando riposo di pomeriggio su un sofà-libreria-armadio-mensola-vetrinetta-cassettiera disegnato da un noto arredatore. In questa casa non esiste tappezzeria. Tutti i muri sono un concentrato di quadri di Funi, de Chirico, Carrà, Sironi. Fa da contrappunto a questi arredi principali la sequenza (confusa, provvisoria e kitsch) degli indescrivibili arredi della villeggiature, atti di reciproca violenza fra noi e gli affittacamere. Poi gli arredi frantumati dalla guerra, caotico e drammatico mixage delle stanze e delle provviste di tutti i parenti, arredi concepiti come difesa diretta del corpo e dei propri valori venali. Dopo la guerra: mobili di guerra, liceo, freddo, paura e luce fioca. Fino all’università non faccio paragoni con arredi altrui e non ho un concetto progettuale dell’arredo.
Poi mi seduce la casa di Ernesto Rogers, dove lo schema razionalista fa da supporto alle cineserie più sofisticate. Mi seducono i virtuosismi formali del Bel Design, e poi Ettore Sottsass, Lucio Fontana, il Neo-Liberty. Ma mentre procede la mia presa di coscienza dell’arredo come progetto, diminuisce la mia capacità a usare dell’arredo per istinto, come fosse un settimo senso. Così che quando Lidia e io ci mettemmo assieme, costringiamo noi stessi (e più tardi le nostre figlie) a rinunciare al progetto di arredo per la nostra casa, decidendo di reinventare l’”arredo del padre”, quel mistico soggiorno scenico a ciclo chiuso, dove quasi “non può” passare alcun oggetto di design, se non attraverso gravi contrasti. L’idea fissa è che un arredo troppo progettato contiene in sé una forza negativa di inerzia e di oppressione, tale da vincere lo sviluppo libero della creatività personale: molti degli arredi più seducenti sono in realtà delle prigioni.
Domus, 624, 1982