Colloquio con Laurie Anderson

Alessandro Mendini, Domus 646, 1984

Come si coniuga l’impersonale tecnologia dei filmati, degli slides e degli strumenti elettronici con le tue canzoni e i tuoi racconti autobiografici?
Prima di tutto, non sono sicura che la tecnologia sia impersonale. In realtà mi interessa il modo in cui la tecnologia è stata e può essere umanizzata. Molti americani fanno le loro conversazioni più intime al telefono. Forse perché è più facile dire cose personali quando non si vede l’altra persona - quando l’altro diventa una voce senza corpo. Penso che l’elettronica sia un’estensione del cervello; la tecnologia ha una velocità e un’immediatezza analoghe a quelle del pensiero umano. Uso la tecnologia perché essa appartiene alla vita quotidiana di molte persone e il mio lavoro è descrivere quella vita.
Nelle tue performances, gli strumenti musicali diventano oggetti parlanti, quasi un «doppio» con cui dialogare ed ironizzare sull’umano. Ti interessa forse una vita dell’oggetto come romanticità della tecnologia?
Il mio obiettivo non è l’ironia. È un tentativo di descrivere e di capire. forse è romantico animare la tecnologia; ma io credo che il confine tra oggetti animati e inanimati sia a volte molto sottile. Pensa a come molta gente vede la propria macchina: un animale ammaestrato. Oppure, in inglese, molte delle parole usate per descrivere l’elettricità suggeriscono la vita: live wire, per esempio. Qualcosa che ha tanta energia da sembrare vivo. In uno degli spettacoli che ho fatto in «United States» c’è un portalampada. In America i portalampada sembrano piccole facce. La luce (nello spettacolo) esce dagli «occhi» del portalampada, e ulula come un lupo. Inoltre, poiché le macchine iniziano non solo a ripetere le informazioni, ma anche a imparare effettivamente le cose, ci sarà una rivoluzione nel campo della manutenzione. Bisognerà portare il proprio home computer al negozio per qualcosa di simile a una consulenza psicologica. Gli insegneremo a riapprendere certe cose, in modo che possa procedere sulla base di nuovi presupposti esatti.
Per il tuo lavoro il paesaggio urbano è una fonte ricchissima di annotazioni e di ricordi, sottili ed ironici, sul quotidiano. Ma quando cammini in una città guardi più al microcosmo personale oppure al macrocosmo architettonico?
Sono sicura che se vivessi in campagna tra gli alberi e gli animali il mio lavoro sarebbe diverso. Ho scelto di vivere a New York perché questa città è piena di gente strana: gente diversa da me. Il mio lavoro è quello di una spia. Vivo qui perché (a differenza di Los Angeles, dove la gente non esce mai dalla propria macchina) le persone devono confrontarsi tra loro.
«United States 1-4» ha assunto una scala operistica, che aggiunta a «Superman» ti colloca nell’empireo delle grandi cantanti. Ti si può definire la Callas sperimentale della new music americana?
Penso che il mio lavoro sia la più antica forma d’arte: il cantastorie. Cambio la mia voce non per rendere più bello il suono, ma per raccontare meglio la storia. Il virtuosismo vocale è al di là di me. Indosso voci diverse come se fossero costumi: la voce dell’autorità, la voce della coscienza, la voce della radio, quella del telefono.