Caro giovane designer

Alessandro Mendini, 1984

Se io fossi un designer molto giovane avrei la certezza che oggi questo mestiere è molto difficile, perché è a una grande svolta, e non si sa bene metterlo a fuoco nelle sue molteplici fisionomie, come pezzo di una realtà sociale i cui con notati sono troppo sfuggenti. Lo chiamerei, perciò, con il nome di BLACK DESIGN, un design “dove si vede nero”. Cercherei poi di andare alle radici del problema, e mi domanderei se sia ancora utile usare per questo genere di cose la stessa parola DESIGN, oppure se essa tenda a perpetuare equivoci tardo-industriali e strutture sorpassate e schematiche di riferimento. Polemicamente lo chiamerei anche, magari NUOVO ARTIGIANATO, per riportarlo dentro al millenario flusso delle arti applicate. Infatti se fossi un molto giovane designer, per così dire “TELE-ARTIGIANO” userei il metodo di autodifesa tipico dei giovanissimi, che è quello di scartare istintivamente l’aggressione subita da tutto il campo “monumentale” sul quale poggiano i valori dell’epoca che c’è: mi libererei dall’oppressione di tante parole (specializzazione? funzione? standard? professione? impiego? serie?) cercando di riprogettare (o di de-progettare) ex novo un mio “diverso” problema progettuale. Perciò in questa epoca, dove uno dei punti più certi è l’attitudine pluri-generazionale verso un “pensiero molle”, incerto e labile, cercherei comunque la forza (la generosità) di espormi al disagio dell’ignoto, alla ricerca (finalmente, dopo tanti anni di dominio prevalente della cultura logica) di generi di design più completi, stratificati e magici, di DESIGN EMOZIONALI. Per fare ciò dalle radici, dovrei scrollare via tutto da me, anche i riferimenti che più mi attirano, che sono la mia momentanea e importante salvezza: parlo della neo-avanguardia italiana, di Alchimia o di Memphis, ma parlo anche del fascino metodologico di Ulm o del radical: “post-Ulm, post-Memphis time”. Cancellerei, in un insieme di odio e amore, tutti i maestri e i contro-maestri, le accademie e le avanguardie, il neoplasticismo e il pop e il fascino rassicurante delle scuole.
Se fossi un designer molto giovane, cercherei di intuire la filosofia dell’epoca che sta per nascere, che vorrei diversa da quella di oggi nelle sue ipotesi di comportamento: perché oggi, nonostante molti slogan liberatori, gli animi delle persone sono chiusi a difendere una involuzione vischiosa che sembra accettare, ma che di fatto esclude, la diversità e la novità. Vorrei chiarire bene, a me e agli altri, che il nuovo tipo d’epoca richiede un uomo diverso, certo ambiguo e artificiale come sempre più tutti siamo, ma capace di sovrapporre i due opposti: la sintesi telematica e la dispersione esistenziale. Vorrei vivere l’esperienza del ritrovamento di un uomo ancestrale e amoroso, formulare il manifesto “iper-moralista” di un DESIGN ANTI-MONDANO, vorrei che il mio disegno sapesse assorbire fame, violenza, povertà, diseguaglianza. Perciò se fossi un designer molto giovane, rinuncerei alla certezza che mi assicura il dilagante linguaggio gioioso e amorale che oggi, momentaneamente in modo giusto, è divenuto istituzionale, e percorrerei sentieri incerti, tortuosi e antichi, per trovare oggetti al di là del mio breve tempo, in una visione circolare fra passato, presente e futuro. Penserei che i miei frammenti (le mosse minime costituite dai miei oggetti) debbano essere come agopunture nel flaccido corpo di un contesto sbagliato: a favore di un nuovo uomo (“robot sentimentale”) e di un’altra idea del rapporto progettare + produrre + sperimentare (post-industrialismo), a sfavore della frenesia concorrenziale, quella che conduce al terrorismo. Allora se fossi un designer molto giovane sarei piuttosto romantico, osserverei duramente le mosse di chi ha già lavorato, le scorie e le croste che noi persone contaminate ci lasciamo alle spalle.
Ma farei ciò anche sopra e contro di me, e vivrei un progetto di disponibilità che conducesse a nuovi oggetti non violenti, calmi, poetici, delicati, adatti ai palcoscenici su cui i nuovi uomini svolgeranno i “riti e le fantasie di clan” del loro prossimo futuro di “persone vive, ma destinate a morire”. Se fossi un designer molto giovane, cercherei una mappa di riferimento al mio operare. Non però pensando alle tecnologie di oggi, o alle forme dell’industrial design, o alla fortuna mercantile del mio lavoro appena avviato. Penserei invece a Giotto o a Kirkegaard, al ventre materno o al kitsch, a Singapore o all’Islam, al vento o alla miniaturizzazione, agli artisti o ai disperati, alla religione o all’incomunicabilità. Anche se considerassi superato il problema delle generazioni, avrei bisogno di non adeguarmi, non mi basterebbe entrare nella scia sicura del manierismo, dell’eclettismo imperante. Vorrei da un lato essere crudele, rifondare e mettere in difficoltà tutto quanto ho davanti a me di costituito; dall’altro lato partire per la mia avventura ideativa, solitaria o di gruppo, cercare nel buio del BLACK DESIGN un affascinante rischio sconosciuto, nascosto più dentro che fuori di me. Metterei in gioco anche la mia personale perdizione, la mia credibilità, il mio isolamento, perché ogni nuova epoca richiede un ricorrente impegno, spesso senza possibilità di ritorno. Come in una passeggiata spaziale, compiuta in un “vuoto” di merce e di metropoli: un DESIGN ERRANTE per una comunicazione culturale fra gli uomini, mentre il DESIGN INFORMATICO dilata all’infinito il nirvana del proprio freddo cervello.