Perché ho lasciato Domus

Alessandro Mendini, L'architettura, 1985

Caro lettore di Domus,
forse hai notato che il numero di settembre 1985 non contiene lo scritto con il quale io, da cinque anni, ti rivolgo una breve “comunicazione” sulla pagina di apertura della rivista.
Infatti da quel numero non sono più direttore di Domus. Un dissidio con l’editore dovuto a motivi politici e di politica editoriale mi ha indotto a dare improvvisamente le dimissioni, e lo stacco è stato così duro che mi è stato negato di pubblicare su Domus il “Congedo dai lettori”.
Scrivo perciò il mio saluto e ringraziamento a te e ai collaboratori di redazione dalle pagine della rivista “L’architettura” di Bruno Zevi, che con la sua grande generosità ha già preso posizione su questa polemica ed ora ospita questo “Congedo” nella lunga distanza che separa la sua dalla mia ideologia. Ma non ti voglio annoiare con queste cose; ti voglio invece esprimere i motivi profondi che mi hanno allontanato dalla rivista.

Ho lasciato Domus al “massimo possibile” del suo fatturato. Oltre questa cifra non è possibile, alla formula di Domus, garantire al lettore l’indipendenza dell’informazione. Il problema è questo: se l’ipotesi, per una rivista di architettura e di design, è quella di esprimere un “progetto culturale”, bisogna definire a priori un tetto ad buisness e contenersi al suo interno. Nel delicato equilibrio fra progetto editoriale e progetto culturale non bisogna cedere all’idea di trasformare la rivista in un grande affare. Solo questa limitazione assicura l’autonomia, perché al contrario bisogna diventare acritici. ed acquiescenti all’industria (specialmente a quella del mobile) e mettere in diretta relazione i contenuti redazionali con l’acquisizione della pubblicità. Ovvero: addio allo sviluppo, di una problematica, ad un approccio fondato sulla ricerca e sulle nostre vere responsabilità, e invece spazio aperto ai bisogni di quel deteriore consumismo, che già dagli anni sessanta segna un punto negativo nella storia, non sempre eroica, del design milanese...
Ecco perché il “caso Domus”mette il dito su una piaga: quello dell’autonomia dei contenuti e dell’ideologia redazionale, rispetto alla connivenza con il mondo della merce. Tutte le grandi riviste di design milanesi hanno grosse responsabilità, perché sono le portatrici dell’Italian Style nel mondo, e sono seguite da progettisti e studenti come punti di riferimento fondamentali. Ecco un motivo di crisi per me: avere visto trionfare sotto forma di “bieco” manierismo molte di quelle idee che ho tanto “meditatamente” proposto in questi anni...
Queste riviste sono responsabili di una grande distorsione: la deformazione edonistica, industriale e di marketing dell’informazione sul progetto, in una specie di balletto mondano e di pornografia del mobilio.
La durezza dei tempi, invece, per quanto riguarda il territorio e lo sviluppo della città e degli oggetti, richiede che una rivista di design vada molto cauta e sia molto critica nei. confronti della merce prodotta, che spesso determina solo inquinamento mentale e polluzione fisica.
Per quanto mi riguarda più da vicino, in quanto”essere vivente”, non è il progetto che mi interessa: io uso la realtà progettuale non al fine di progettare, ma al fine di comunicare, perché il mio problema è quello di “comunicare”. La mia vita in sé non ha intenzioni progettuali, non vuole realizzare obiettivi o programmi: è un accumulo di esperienze, eventi più o meno normali o eccezionali o alienati o segreti, tutti tentativi di comunicazione, la mia vocazione personale. Perché credo che ciascuno debba fare al meglio ciò che sa fare, interrogandosi proprio su cosa sa fare, e capito che si ha una vocazione, da lì è bene non uscire, qualsiasi sia la vocazione e la sua moralità. Fer cui, analizzando me stesso, mi ritrovo indifferente alle tecniche: non ho la fortuna di avere una tecnica che prevale sull’altra. Allora il disegno, la parola, l’oggetto, una rivista (Casabella), un’altra (Modo) e ancora un’altra rivista (Domus), la mostra, la lezione, la poesia, l’installazione, sono possibili e provvisori materiali attraverso i quali sviluppare questa idea ossessiva di “esprimermi”. È una specie di mossa tragica, una specializzazione alla rovescia, la “specializzazione nel dilettantismo”. L’idea di “dire” ciò che la mia persona capta, in quanto sismografo di fenomeni umani; senza distinzione fra il momento in cui sono intelligente o stupido, buono o cattivo, mostro o santo, fra il bello e il brutto, fra il maniaco e il normale, nel contrasto fra il bisogno di emergere e il desiderio di restare sommerso nel magma dell’inespresso, di annegare nella folla. Ma che cosa comunicare? Se dalle tante parole che esistono debbo estrarne poche e basilari, quelle cui penso sono: vita, morte, amore, dolore, caos. Attorno a queste tematiche mi interessa parlare, non so bene a chi, se alle persone specializzate, se a una élite, se a una moltitudine, se a poche persone, se addirittura a una sola, se a nessuno ma solo a me stesso.
Questo modo di “lavorare vivendo” si manifesta come spreco, come “consumo di sé” nella difficoltà di oggettivarsi, nel disinteresse di staccarsi da sé per vedersi dal di fuori. E sotto la calma, sotto il progressivo aspetto di saggezza acquisito, esiste un terremoto, quello che conduce al bisogno di parlare, anzi di urlare, a tutti o a nessuno, di sussurrare anche un messaggio errato.
Allora perché restare chiusi nella prigione dorata di Domus? Nel pieno dell’energia e del potere sociale è lecito il bisogno di percorrere una crisi. Il richiamo (“ciò che chiede la coscienza”) è quello di addentrarsi in maniera diversa nella realtà del proprio essere, prima che l’abitudine, la fortuna e altre cose privino di una certa esperienza, facciano (per così dire) disperdere sé stessi. Allora: che cosa siamo, cosa invece dovremmo essere, dove si nasconde la nostra (la mia) “ricerca di sé”? Occorre trovare una “più vera e più precisa” realtà, occorre trasformare e trasferire radicalmente il punto di osservazione, disinserirsi dall’ambiente usuale, regredire, compiere il difficile innesto in un’altra atmosfera, rischiare l’incognita di non sapere più produrre, lasciare le cose care, quanto già costruito e capitalizzato: affetti, luoghi, metodi, lavoro, struttura morale, la stessa immagine (mia). Occorre presentarsi muniti solo di quanto può essere trattenuto nello spazio della mente e nella dimensione del corpo: fra le tante cose è bene lasciare anche Domus!

Credo sempre di più che si debba “disegnare” invece che “progettare”. Disegnare vuole dire, semplicemente, emettere dei segni, svolgere un libero e continuo movimento del pensiero visivo. Il disegno è una cosa molto diversa dal progetto, perché non comporta ipotesi di previsione, di organizzazione e di uso. Anche l’architettura o l’oggetto tridimensionale possono essere intesi come disegno, come pittura, come attrezzo scenografico, come pura quinta visiva.
Il compito del disegno, il suo status consiste tutto nel porsi come comunicazione, come testimonianza sentimentale. La motivazione del disegno non sta nella sua efficienza, la sua “bellezza” consiste tutta nell’amore con cui esso viene proposto, nell’anima che esso contiene. Il disegno è turbolenza, squilibrio, dettaglio (umano, urbano, politico, culturale...). Il disegno coincide con una continua paura indefinita (della debolezza, del vuoto, dell’assenza...). Se non ho obiettivi certi, se il progetto è chiuso al futuro, se non so pensare a trasformazioni generali e razionali, allora mi concentro in me stesso, cerco pezzi di pensiero visivo dentro di me, con la sola intenzione di fare vivere la vocazione poetica. Formulo agli altri un atto di introversione, di solitudine, un arbitrio creativo minimale, al di là di qualsiasi giudizio.
Non mi interessano le discipline quando sono considerate all’interno delle loro regole. Anzi, è importante indagare nei grandi spazi liberi esistenti fra di esse. Non occorre sapere se si sta facendo scultura, architettura, arte applicata, teatro o altro ancora. Il disegno (per esempio il mio) è solo un “DISEGNO CONTINUO” che agisce al di fuori del progetto, in uno stato di neutralità disciplinare, dimensionale e concettuale. Vale l’ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione e di produzione “confusi”, dove possano mescolarsi artigianato, informatica, tecniche, materiali, forme e tradizioni attuali e inattuali.
Vale il concetto di “variazione”. Data l’insufficienza del disegno a fronteggiare il mondo, il disegno stesso diventa un’opera senza principio, senza fine e senza giustificazione, una formalistica rete di stilemi, di stili e di riferimenti. I giochi linguistici e di comportamento si intrecciano, si combinano e si ripetono all’infinito nei decori degli oggetti disegnati, in un sistema valido solo “all’interno di sé”. Vale l’immagine depurata, raffreddata e staccata da ogni cedimento retorico, dal peso antropologico e rituale dell’artista. Il vagare indeterminato della fantasia dà luogo alla costruzione di un meccanismo rappresentativo, nell’attitudine eterna dell’uomo (che io faccio mia) a ridisegnare incessantemente l’immagine del mondo e le sue matrici ornamentali.
Per me gli oggetti devono essere assieme “normali” e “anormali”. La loro componente di qualunquismo li fa confluire nel quotidiano, nel reale e nel bisogno di normalità, la loro componente dì eccezione li toglie dalla consuetudine e li collega al bisogno dell’imprevisto, della differenza, dell ‘anomalia.
Per me il disegno è un ciclo: tutto quanto accadrà è già avvenuto, e la fantasia individuale può percorrere in tutti i sensi ogni cultura e luogo, purché agisca in termini di “sincerità”. Per me il disegno è delicato, non si impone, ma affianca e accompagna l’andamento della vita e della morte delle persona cui quel disegno piace.
Ecco perché forse, caro lettore di Domus, non sono più capace di dirigere una rivista che ha come tema la “progettazione”.