MINASAN CONBANWA

Alessandro Mendini, 1985

Signore e signori,

vi descriverò in breve il mio più recente pensiero.

Per quanto mi riguarda in quanto “essere vivente”, non è il progetto che mi interessa: io uso la realtà progettuale non al fine di progettare, ma al fine di comunicare, perché il mio problema è quello di “comunicare”.

La mia vita in sé non ha intenzioni progettuali, non vuole realizzare obiettivi o programmi: è un accumulo di eventi più o meno normali o eccezionali o alienati o segreti, tutti tentativi di dire le mie esperienze personali.

Allora il disegno, la parola, l’oggetto, una rivista (Casabella), un’altra (Modo) e ancora un’altra rivista (Domus), la mostra, la lezione, la poesia, la performance, sono possibili e provvisori materiali attraverso i quali sviluppare questa idea ossessiva di “esprimermi”. È una specie di mossa tragica, una specializzazione alla rovescia, la “specializzazione nel dilettantismo”.

L’idea di dire ciò che la mia persona capta, in quanto sismografo di fenomeni umani; senza distinzione fra il momento in cui sono intelligente o stupido, buono o cattivo, mostro o santo, fra il bello e il brutto, fra il maniaco e il normale, nel contrasto fra il bisogno di emergere e il desiderio di restare sommerso nel magma dell’inespresso, di annegare nella folla.

Ma che cosa comunicare? Se dalle tante parole che esistono debbo estrarne poche e basilari, quelle cui penso sono: vita, morte, amore, dolore, caos.
Attorno a queste tematiche mi interessa parlare, non so bene a chi, se alle persone specializzate, se a una élite, se a una moltitudine, se a poche persone, se addirittura a una sola, se a nessuno ma solo a me stesso.
Questo modo di “lavorare vivendo” si manifesta come spreco, come “consumo di sé” nella difficoltà di oggettivarsi, nel disinteresse di staccarsi da sé. E sotto la calma, sotto il progressivo aspetto di saggezza acquisito, esiste un terremoto, quello che conduce al bisogno di urlare, di sussurrare un messaggio anche errato, a tutti o a nessuno.

Vorrei parlare di due parole fra loro opposte: “dipingere” e “progettare”. Credo sempre di più che si debba “dipingere” invece che “progettare”. Dipingere vuole dire, semplicemente, emettere dei segni, svolgere un libero e continuo movimento del pensiero visivo.

Il dipinto (il disegno ornamentale) è una cosa molto diversa dal progetto, perché non comporta ipotesi di previsione, di organizzazione e di uso. Anche l’architettura o l’oggetto tridimensionale possono essere intesi come fossero pittura, disegni, come attrezzi scenografici, come pura realtà visiva.
Il compito della pittura, il suo status consiste tutto nel porsi come comunicazione, come testimonianza sentimentale. La motivazione del dipinto non sta nella sua efficienza, la sua “bellezza” consiste tutta nell’amore con cui esso viene proposto, nell’anima che esso contiene.

Se non ho obbiettivi certi,e oggi non ci sono obbiettivi certi, se il progetto è chiuso al futuro, se non so pensare a trasformazioni generali e razionali, allora mi concentro in me stesso, cerco pezzi di pensiero visivo dentro di me, con la sola intenzione di fare vivere la vocazione poetica.

Non mi interessano le discipline quando sono considerate all’interno delle loro regole. Anzi, è importante indagare nei grandi spazi liberi esistenti fra di esse.

Non occorre sapere se si sta facendo scultura, architettura, arte applicata, teatro o altro ancora.
La pittura (per esempio la mia “pittura di design”) è solo un dipinto che agisce al di fuori del progetto, in. uno stato di neutralità disciplinare, dimensionale e concettuale.

Vale l’ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione, e di produzione “confusi”, dove possano mescolarsi artigianato, informatica, tecniche, materiali, forme e tradizioni attuali e inattuali.
Vale il concetto di “variazione”. Data l’insufficienza del progetto a fronteggiare il mondo, esso viene sostituito dal dipinto, che diventa un’opera senza principio, senza fine e senza giustificazione, una formalistica rete di stilemi e di riferimenti visivi.

La pittura è un ciclo: tutto quanto accadrà è già avvenuto, e la fantasia individuale può percorrere in tutti i sensi ogni cultura e luogo, purché agisca in termini di “sincerità”. Per me il disegno è delicato, non si impone, ma affianca e accompagna l’andamento della vita e della morte delle persone cui quel disegno piace