Architetti - Designer

Alessandro Mendini, 1986

L’idea del libro consiste tutta in una constatazione: ci sono degli architetti che fanno anche il mestiere del designer, oltre a fare quello dell’architetto. Il fenomeno è vasto, preciso, importante, e produce opere di design fondamentali: dunque osserviamolo. Nascono subito alcune domande. Domandiamoci perché esiste questo fenomeno, se c’è una metodologia comune che permette ad un solo progettista di pensare contemporaneamente a dimensione architettonica e a dimensione di design, se è lecito lavorare assieme a grande e a piccola scala? Posso disegnare con la stessa serietà un anello e un palazzo, un “cucchiaio e una città”? Per il vero architetto, il progetto di design è un’esperienza sostanziale o solo marginale? E poi: perché così come ci sono gli architetti-designer, non esistono invece anche i designer-architetti? Facciamo in breve alcune osservazioni su questa problematica. Nelle lontane epoche storiche delle arti applicate, vedasi il Rinascimento, l’artista lavorava spesso nella logica della convergenza fra pittura, scultura e architettura, producendo assieme opere d’arte, di architettura e di arredo, passando dall’affresco al mobile, dalla statua al tabernacolo, dalla facciata al trionfo da tavola. Ma erano i tempi, era il miraggio della sintesi delle arti. Il fenomeno era di carattere sintetico, mentre nel moderno, se un autore si occupa insieme di due o più discipline, lo fa perché la sua vocazione dell’epoca è analitica, vige l’idea del frammento e dell’eclettico. Il concetto di specializzazione introdotto dall’era industriale ha dissolto per sempre il miraggio dell’unità delle arti visive. Tutti i grandi maestri del Movimento Moderno, da Van de Velde a Wagner, da Hoffmann a Behrens, oppure Gropius, Wright, Le Corbusier, Mies, Aalto e Ponti sono stati architetti che “facevano” pure i designer. Ma questo non è dovuto alla possibilità di sovrapporre le metodologie dell’architettura e del design, bensì al fatto che tutti loro, prima di essere progettisti, sono stati degli inventori di interi “modi di vedere il mondo”, sono stati utopisti di strutture abitative complete: e fra esse c’erano indifferentemente le case, i mobili o i casalinghi.
Niente sintesi delle arti e niente metodologia progettuale, in loro, nel “passare” dall’idea di un bicchiere a quella di una cupola: ma il bisogno di organizzare il territorio a tutti i suoi livelli, di catalogare e dividere tutti i comportamenti umani come in una enciclopedia. L’epoca del “Bel design italiano” è un’altra cosa ancora: Zanuso, Aulenti, Castiglioni, Mangiarotti, Bellini, Magistretti sono “laureati” architetti, ma non passeranno certo alla storia per le loro architetture: essi sono degli “architetti-non architetti”, il loro virtuosismo è tutto concentrato nell’oggetto e nell’allestimento, la misura architettonica è vissuta come anelito, come frustrazione, come riscatto sociale cui tendere, per liberarsi dall’incubo della merce, del consumismo, del divismo del “mobile firmato”. Essi sono dei grandi individualisti, i corrispondenti contemporanei degli artisti delle botteghe umanistiche del cinquecento: nel rapporto privilegiato che hanno istituito col Principe, la loro capacità si realizza nella dimensione dell’interno del Palazzo, ma sognano la responsabilità di costruirne l’esterno.
Ed eccoci al post modem. Sono convinto che potrà esserci, ma che ancora non esiste, un design post moderno. Gli architetti del post moderno vivono la dimensione del design non nella sua realtà disciplinare, ma in quanto esperimento mini-architettonico, in quanto gioco di miniaturizzazione dimensionale. I loro oggetti sono piccole piazze, piccoli grattacieli, piccole fontane. Gli oggetti di Graves, Venturi, Portoghesi, Eisenmaan, Meyer, Botta e Moneo sono delle esercitazioni sui linguaggi e sui materiali, sono fabbricati come i cantieri tradizionali, assomigliano ai giocattoli dei bambini del settecento: cose da grandi realizzate in piccolo.
Sono dei plastici di architettura usabili come sedie, come vassoi o lampade, ed eludono polemicamente il problema dell’utenza e della riproducibilità. Non sono in realtà degli oggetti, ma sono dei traslati architettonici, delle parafrasi, delle metafore. Solo Aldo Rossi con la sua caffettiera prodotta ad alta tiratura, ha rotto questo muro, ha coniugato un vero rapporto, una reale combinazione fra architettura e oggetto, aprendo il varco a un inedito possibile passaggio diretto fra le metodologie dell’architettura e del design. Infine il neo modem, che vede anche me tra i suoi seguaci. Il progettista neo moderno non. è strettamente un architetto, non un designer, ma piuttosto un operatore infra-disciplinare, in grado di collegare fra loro vari tematiche: il suo approccio ad esse, infatti, non è sostanziale, ma sovra-strutturale, il metodo è estetico e figurativo, oppure esistenziale, mai tecnico o tipologico. L’impegno linguistico precede quello funzionale, l’architettura e il design diventano scultura e pittura. Così come coincide con il design, l’architettura neo moderna (di cui per ora non ci sono ancora esempi) coincide con la scultura e la pittura; ma non motivata dall’idea di sintesi presente nell’arte antica, e nemmeno dalla visione unitaria dei maestri del Movimento Moderno. L’operatore progettuale neo moderno può permettersi di saltare da una specialità all’altra, dalla moda, all’architettura, alla performance, alla pittura, perché di esse gli interessa solo il loro minimo comune denominatore, che è il linguaggio, la stilematica. Perciò, nel mondo frammentario degli oggetti di qualsiasi dimensione e genere, mobili e immobili, egli lavora ‘in vitro” ad una specie di pitturazione globale dell’universo, inteso come sistema di merci dall’aspetto decorativo. E perché, chiedevo all’inizio, esistono tanti architetti-designer, ma non ci sono invece quasi i designer-architetti? È una questione, penso, di diversa dimensione della preparazione culturale: colui che sa lavorare su problematiche complesse può spostarsi agilmente su temi più semplici, ma raramente succede il contrario. Il discorso si sposta allora sulla didattica, sulle scuole di architettura e su quelle di design. Ma qui mi conviene interrompere queste mie osservazioni.