Per Out Off

Alessandro Mendini, 1986

A chi osserva l’Out-off ed è, come me, un cittadino milanese attento alla problematica culturale, vengono alla memoria due precise caratteristiche: una, quella che l’Out-off sia un luogo (o meglio un “non luogo”!) capace di attirare e filtrare sempre, nel tempo, più disparati fenomeni di cultura alternativa ed emergente; l’altra, quella di avere sviluppato dall’inizio una specie di utopia, di epopea, una vocazione (sistematica) alla “ricerca del proprio luogo”, inteso tanto come status esistenziale, quanto come vera sede fisica, come “sala per spettacolo”.
Ritengo che Milano sia, nella gestione ufficiale della propria cultura, una città sorda e grossolana, capace solo di mosse di rimbalzo e solo di rischi su terreni garantiti: me lo dimostra anche, fra altre cose, proprio la sua (ormai storica) apatia (o voluta mancanza di volontà politica) a fornire l’Out-off di denari, di un teatro, cioè dei necessari strumenti di lavoro.
È così che per dieci anni ho visto, come in una nebulosa, spuntare azioni dell’Out-off di luogo in luogo, in un estenuante movimento di autonomia e di disturbo dei teatri e delle compagnie accademiche, alcune delle quali potrei ammirare molto, solo se ci vedessi dentro anche l’attitudine a porsi in confronto con i fenomeni sperimentali. Perché, a mio avviso, è proprio per loro tramite che la storia della cultura si modifica strutturalmente. L’Out-off, perciò, si presenta alla mia mente come un incontaminato luogo di “transiti”: importante perché quasi il solo, a Milano, a provocare e consentire lo svolgersi di certi circuiti, ad esempio quelli del teatro italiano di avanguardia e di ricerca. I personaggi alternativi (ed anche le ipotesi alternative di personaggi ufficiali), le culture di minoranza, non hanno sul fronte dello spettacolo altra porta cui bussare: ed è per questo che il decennale cartellone dell’Out-off si presenta come un singolare laboratorio infradisciplinare permanente, che ha tenuto (e tiene) molti importanti battesimi, nel quale possono passare i più sottili autori e generi di suono, mimica, dizione, visione, ambiente, oltre a poesia, letteratura e la problematica politica. Per quanto mi riguarda, l’Out-off mi ha consentito trasferire nella dimensione e nella dinamica coreografica alcune istanze della ideologia del design radicale, che non avrei potuto verificare altrove e che avevo urgenza di provare “al vero”, nel loro aspetto scenografico e figurativo. L’Out-off compie ora dieci anni.
Cosa vuole dire questa cosa (questa età) per un gruppo culturale? Dieci anni di vita, per un gruppo, sono tantissimi.
La vita attiva (non burocratizzata) di una équipe culturale, per restare ideativa, deve metodicamente ricevere delle “terremotazioni” sostanziali, che ne modifichino a fondo la struttura. Penso che oggi una nuova vita del gruppo di Out-off sia legata molto all’ottenimento, finalmente, di una propria sede: del luogo, intendo, che consenta di spostare “solo” verso i contenuti, l’energia finora spesa troppo anche verso la gestione di luoghi dispersi e lontani. Spero che l’Out-off si trasformi da luogo “invisibile” in un luogo visibile, munito di strada e numero civico. È perciò che considero questa mia breve nota sull’Out-off come un. “Appello per la sua sede”: un appello rivolto alle nostre ottuse autorità, perché si accorgano della sua importante presenza di contro-spinta, e smettano di boicottarne la vita. Specialmente in questi tempi di riflusso.