Per Davide Pizzigoni

Alessandro Mendini, 1986

Sono attratto spesso da certe esperienza, lontane dalla mia, che partendo da basi differenti, ma con simile intensità, puntano su obiettivi diversi dai miei, altrettanto difficili. Specialmente mi incuriosisce (in modo morboso) l’attitudine di chi tende a costruire una visione organica e sintetica del “Progetto”, dalla quale derivare una completa articolazione architettonica del mondo: attitudine proprio opposta alla mia.
Davide Pizzigoni, che lavora nell’ambito di importanti maestri che non occorre citare, appartiene a questa scuola rassicurante.
Può la polverizzazione storica e stilistica della realtà, che io assumo come condizione, constatabile del progetto, essere considerata come un momentaneo caos da riassorbire nella durevolezza, nella tradizione, nell’eternità dell’ordine? Quella scuola, utopistica quanto quella cui appartengo io, risponde di sì, laddove io rispondo di no.
Invidio (e talvolta, come in questo caso, ammiro) chi ha tanto chiare idee di speranza, chi muove il suo pensiero dall’alto di una piramide, da un panorama che permette un orizzonte lontano, una veduta di sintesi che io non mi so concedere. La “Grande Muraglia” è il quadro su cui si imposta questa esposizione di Pizzigoni.
Si tratta di un acquerello-sintesi, lunghissimo e virtuosistico, sul quale si allineano, in un muro di città, le principali proto-tipologie dell’architettura: torrette, portali, finestrelle da difesa, colonne, nicchie...
Sviluppandone con senso trattatistico le varie componenti in disegni più piccoli, Pizzigoni decodifica la grande frase nelle sue componenti: ed ecco l’analisi formale, costitutiva, associativa, coloristica, la verifica compositiva della grande costruzione d’assieme. La grande muraglia è l’astratto, metafisico, classico, monumentale, immutabile, disabitato mondo-miraggio dell’assoluto nell’architettura, la rappresentazione totalizzante del territorio formalizzato. L’architettura “vera”, quella “davvero” costruibile, non è se non un gioco di particolari, di suoi pezzi staccati, resi volumetrici. Il disegno non è considerato come un mezzo tecnico atto a trasmettere solo i dati per la fabbricazione dell’opera, ma esso stesso è opera compiuta, pittura completa dalla quale estrarre quelle parti “da costruire”, che ne sono dei derivati, forse di valore minore. Un lavoro assieme delicato e forte, quello di Pizzigoni, il cui maggiore fascino, per me, è dato dal suo bisogno di immersione dentro agli elementi del fondamento poetico dell’architettura.