Se 30 minuti son meglio di una triennale

Alessandro Mendini, 1986

Chi volesse avere il brivido di osservare da vicino il clamoroso letto dal quale il Re Sole dominava tutta la Francia, può andare alla triennale di Milano in questi giorni, dove è aperta una mostra “classica”, sulle vicende della casa borghese. Sono un nemico d’ufficio di tutta la cultura che viene trasmessa attraverso il cadavere delle istituzioni e del loro potere. Per me la mostra Ideale rassomiglia a quei piccoli tavoli aperti in gran fretta agli angoli di strada per giocare d’azzardo: quando arrivano i carabinieri, si chiude tutto di colpo, la piccola folla si dilegua fischiettando e guardando indifferente il cielo, dei responsabili nessuna traccia:, non “esiste” più nulla, se non la “connivenza”. È ciò che si chiama un “blltz” utopico. Ma anche per guanto riguarda il criterio tematico: sono un nemico dei grandi temi, della retorica, degli organigrammi onnicomprensivi. Credo possa contenere più fantasia, addirittura, un approccio casuale. Mi era venuto in mente una volta di organizzare una mostra di tutti quegli architetti italiani, il cui cognome finisce in “ini”: Natalini, Bellini, Spadolini, Purini, Mendini, Nicolini (e magari straordinariamente Nicolin…). Per me, fautore di “mini-mostre”, (durata massima trenta minuti), le biennali, le triennali, quadriennali (cioè le esposizioni obbligate dallo Stato al cittadino) sono da considerare un disastro (assieme alle loro feste mondane, humus ottimale per la crescita dei parassiti).
Comunque: sia benvenuta, buona o cattiva, ogni manifestazione capace di suscitare problemi intellettuali, anche se fatta dai “nemici”: si può almeno entrarci per capovolgerne il senso. Così è per quest’ultima “maxi-mostra” in triennale, “Il progetto domestico. La casa dell’uomo: archetipi e prototipi”. Un’operazione valida. E questo al di là della demagogia che un tema dal titolo “La casa dell’uomo” (aristocratico e alto borghese) tradizionalmente comporta, al di là della ormai ”formula fissa” di accostare nomi illustri e fasi descrittive in una sorta di enfatico olimpo museografico, al di là dell’affermazione lapalissiana del suo ideatore, il designer Mario Bellini, che “una mostra così non si era mai fatta”, al di là del desiderio del suo Presidente onorevole Eugenio Peggio, che forse la triennale, data per morta, è invece un po’ viva perché recentemente ha raccolto “vasti consensi e vivi apprezzamenti”. L’importante è che ogni autore (ogni pesce fuor d’acqua) riesca a compiere il proprio “blitz scenografico”, riesca a esprimersi dentro agli interstizi di tali “cadaveri viventi”; così come (forse) successe qualche mese fa pure a me, quando in un olimpo analogo (quello delle “affinità elettive” nella stessa triennale mi finsi allineato come nei loculi di un cimitero, e misi in esposizione la mia stessa statua funebre attorniata dai suoi oggetti preferiti. Ma certo la nuova maxi-mostra è attuale e corretta almeno in una cosa, e una cosa sicuramente indica: che oggi soffia il vento dell’arredamento.
Il concetto di arredamento (di “architettura soffice”) la vince sulla fredda disciplinarietà dell’architettura spaziale con quanto di antropologicamente positivo questa nozione comporta. Parlare di arredamento “prima” e di architettura “poi”, vuole dire occuparsi affettuosamente, corporalmente, psichicamente dell’uomo “come persona”, invece della sua fredda, astratta dimora geometrica (anche se la nuova maxi-mostra compie una strana, voluta dimenticanza nei confronti dell’arredamento “eroico”, e “non rassicurante” del movimento moderno). E siccome abbiamo molto bisogno di certe affermazioni di principio possiamo, senza sottilizzare troppo sulla sua vocazione di designer industriale, essere grati questa volta all’idea e alla qualità professionale di Mario Bellini.