Per Modo

Alessandro Mendini, 1986

Io sono architetto, ma un’immersione “profonda” dentro agli elementi “PURI” del fondamento poetico dell’architettura mi è negata. Il mio approccio “impuro” (esistenziale, eclettico, antropologico, contenutistico) mi nega quell’inebriante esperienza di purezza.
Eppure, sono attratto spesso da quel tipo di esperienze, lontane dalla mia, che partendo da basi differenti, ma con simile intensità, puntano su quegli elementi fondativi, su obiettivi tanto diversi dai miei, e altrettanto difficili. Specialmente mi incuriosisce (in modo morboso) l’attitudine di chi tende a costruire una visione organica e sintetica del “PROGETTO”, dalla quale derivare una completa articolazione architettonica del mondo: attitudine proprio opposta alla mia. Può la polverizzazione storica e stilistica della realtà, che io assumo come condizione dimostrabile del progetto, essere considerata come un momentaneo caos da riassorbire nella durevolezza, nella tradizione, nell’eternità dell’ordine? Quella scuola, opposta alla mia, utopistica quanto quella cui appartengo io, risponde di sì con un “CREDO” assoluto, laddove io rispondo di no. Invidio (e spesso anche ammiro) chi ha tanto chiare idee di speranza, chi muove il suo pensiero dall’altro di una piramide, da un panorama che permette un orizzonte lontano, una veduta di sintesi che io non mi so concedere.
Un modo di procedere tanto autorevole e rilassato, quanto il mio è vulnerabile e angoscioso.
Un modo che affonda il suo potere e la sua forza nell’interminabile flusso storico della garanzie tipologiche, stilistiche e istituzionali (il grande e diritto viale di una acropoli), quanto il mio invece si aggroviglia dentro ai sentieri di una foresta sconosciuta.
Di là, per quella grande strada, c’è la grande idea d’assieme, il metafisico, classico, monumentale mondo-miraggio dell’assoluto nell’architettura, la rappresentazione totalizzante del territorio formalizzato, lo sviluppo trattistico di una enorme scenografia architettonica. Di là c’è l’architettura “VERA”, il suo sistema di leggi, una sorta di “GIUDIZIO UNIVERSALE”. Di qua, invece, fra i miei sentieri, c’è l’imprendibile e imprevedibile ossessione di rispettare “direttamente” il “CORPO UMANO”, quale elemento genetico di una architettura, per così dire, “sensitiva”, del tutto incapace di riferirsi a dei giudizi. E in quanto tale, addirittura “illegale”: logorante e sfuggente a ogni tentativo di sistematizzazione.