Giuseppe D’Amore

Alessandro Mendini, 1986

Oggi, 1986, il panorama della ricerca nel design é “variegato”. La grande burrasca del neo-moderni mo iper-decorativo ha lasciato sulla spiaggia molti, moltissimi relitti.
Tornata una certa calma (ma quanto durerà?), l’osservatore trova sulla sabbia il “variegato”: oggetti, cioè, assolutamente singolari da autore ad autore, ricerche quanto mai personalizzate, oggetti “cercati” e “trovati” non all’esterno, ma all’interno di se stessi. La visita dei relitti sulla spiaggia, per l’osservatore attento, è molto faticosa: perché ogni autore ha una sua ermetica chiave di lettura, una sua ipotesi, un suo proprio linguaggio. Sembra che il metodo manierista che fece da sintesi alla neo-avanguardia, sia esploso nell’opposto di se medesimo, nelle rovine scisse, appunto, in componenti unici e preziosi. Così é per il lavoro di Giuseppe D’Amore. La sua unicità consiste, penso, nella delicatezza di leggere il mondo degli oggetti come “poesia oscillante”, nell’ipotesi di una essenzialità strutturale/ornamentale, in una idea di linguaggio che combina l’organica spontaneità dell’artigiano cesellatore alle sofisticate visioni captate dalle culture figurative europee del novecento. I suoi oggetti sono i soli, oggi, ad essere “svuotati della loro stessa materia”. Forse per rappresentare la concettualità diagrammatica di sé stessi. O forse per evitare il dramma dell’ingombro. Forse anche per proporsi a un uso virtuale. Eccetera. Vasi, orologi, vassoi, posate, sedie, tende, porte, anche un abito “vibratile” e “distanziante”: inizia per Giuseppe il suo “unico” catalogo di design emozionato (caldo e freddo assieme: tiepido?). Oggetti di design/arte, come si conviene a chi lavora aggiornato, dentro al panorama del 1986, ricco delle sue (eventuali e incerte) prospettive.