Caffé letterari

Alessandro Mendini, 1987

Mi è capitato talvolta di dovere disegnare alcuni oggetti da caffè. Ho fatto queste cose con amore, ho affrontato il loro aspetto rituale, ho rivisitato la loro storia passata e pensato a quella futura. Non solo, mi è capitato anche di progettare l’intero ambiente di uno (o più) caffè. Uno molto intellettuale, in via Veneto a Roma, e uno molto grande e affollato per una stazione. Ed ancora, ho coordinato dei progetti sui vari tipi di macchine per fare nel mondo i vari tipi di caffè, fino al punto di spettacolizzare nei vicoli di Napoli una caffettiera gigante napoletana antropomorfa, vedendola camminare come fosse una maschera teatrale.
Dico tutto questo, perché dovrei supporre di “intendermene” di caffè, come bevanda e come luogo. Invece no. Io bevo poco caffè, e non frequento il “luogo” caffè. Una cosa è “pensare” al caffè (o ad un altro qualsiasi tema progettuale), un’altra cosa ben diversa è saperlo “vivere”, così come mi riesce pure molto difficile sapere “abitare”. Io sono un timido, un solitario, e ho una grande paura dei luoghi di conversazione.
Mi fanno paura tutti i luoghi di ritrovo, anche i bar, i cocktails, i ricevimenti. Figuriamoci poi se, invece che solamente funzionali al loro scopo di ristorazione, questi sono magari “sportivi”, o addirittura “letterari”.
Ne fuggo lontano, e pieno di complessi rinuncio a considerarli, ne rimuovo l’importanza e l’uso. Perciò chiedetemi tutto sui caffè letterari, però vi prego, non invitatemici!