Architetto-Designer

Alessandro Mendini, Flash Art 1987

Perché le più importanti opere di design sono fatte dagli architetti.
Il design moderno e contemporaneo è caratterizzato dal fatto che coloro che lo progettano sono, per lo più, degli architetti, sia in quanto hanno fatto studi di architettura, sia in quanto realizzano delle costruzioni. Una storia del design non è pensabile, se privata dell’apporto sostanziale degli architetti. Il fenomeno mi sembra molto rilevante e merita alcune osservazioni.
Nelle lontane epoche storiche delle arti applicate, vedasi il Rinascimento, l’artista lavorava spesso nella logica della convergenza fra pittura, scultura e architettura, producendo assieme opere d’arte, di architettura e di arredo, passando dall’affresco al mobile, dalla facciata al trionfo da tavola, dalla statua al tabernacolo. Erano i tempi, era il miraggio della sintesi delle arti. Il fenomeno era di carattere sintetico, mentre nel moderno, se un autore si occupa assieme di due o più discipline, lo fa perché la sua vocazione è analitica, vige l’idea del frammento e dell’eclettico. Il concetto di specializzazione introdotto dall’era industriale ha dissolto per sempre il miraggio delle arti visive. Poniamoci alcune domande, mentre è in. preparazione a Barcellona, presso l’editore Gustavo Gili, un libro su questo argomento. Perché esiste il fenomeno degli architetti-designer? C’è una metodologia comune che permette a un solo progettista di pensare contemporaneamente a dimensione architettonica e a dimensione di design? È lecito lavorare assieme a grande e a piccola scala? Posso disegnare con la stessa serietà un anello e un palazzo, un “cucchiaio e una città”? Per l’architetto, il progetto di design è un’esperienza basilare o solo marginale? Inizio dal radical e dal neo modem, che vede anche me fra i suoi seguaci. Il progettista neo moderno non è strettamente un architetto, non un designer, ma piuttosto un operatore infra-disciplinare, in grado di collegare fra loro varie tematiche: il suo approccio ad esse, infatti, non è sostanziale, ma sovra-strutturale, il metodo è estetico e figurativo, oppure esistenziale, mai tecnico o tipologico. L’impegno linguistico precede quello funzionale, l’architettura e il design diventano simili alla pittura e alla scultura. Così come coincide con il design, l’architettura neo moderna (di cui per ora non ci sono ancora esempi) coincide con la pittura e la scultura; ma non motivata dall’idea di sintesi presente nell’arte antica, e nemmeno dalla visione unitaria dei maestri del Movimento Moderno. L’operatore progettuale neo moderno può permettersi di saltare da una specialità all’altra, dalla moda all’architettura, alla performance, alla pittura, perché di esse gli interessa solo il loro minimo comune denominatore, che è il linguaggio. Perciò, nel mondo frammentato degli oggetti di qualsiasi dimensione e genere, egli lavora “in vitro” ad una specie di decorazione globale dell’universo. Passiamo al post modem. Sono convinto che potrà esserci, ma che ancora non esiste, un design post moderno. Oppure che gli architetti post moderni fanno dell’arte applicata invece che del design. Essi vivono la dimensione del design non nella sua realtà disciplinare, ma in quanto esperimento mini-architettonico, in quanto gioco di miniaturizzazione degli elementi costruttivi. I loro oggetti sono piccole piazze, piccoli grattacieli, piccole fontane. Sono dei plastici di architettura usabili come sedie, come vassoi o lampade, ed eludono polemicamente il problema dell’utenza e della riproducibilità. Non sono in realtà degli oggetti, ma sono dei traslati architettonici, delle parafrasi, delle metafore. Gli oggetti di Eisenman, di Portoghesi, Hollein, Venturi e Meyer sono delle esercitazioni sui linguaggi e sui materiali, sono fabbricati come i cantieri tradizionali, assomigliano ai giocattoli dei bambini del settecento: cose da grandi realizzate in piccolo. Solo Aldo Rossi, con la sua caffettiera per Alessi, prodotta ad alta tiratura, ha rotto questo muro, ha coniugato un vero rapporto, una reale combinazione fra architettura e oggetto industriale, aprendo il varco a un possibile inedito passaggio diretto fra le metodologie dell’architettura e del design. L’epoca del “Bel design italiano” è un’altra cosa ancora. Albini, Zanuso, Castiglioni, Magistretti, Bellini sono “laureati’ architetti, ma passano alla storia per il loro design invece che per le loro architetture: il loro virtuosismo è tutto concentrato nell’oggetto, la misura architettonica è vissuta come anelito, come riscatto politico dall’incubo della merce e del mobile firmato. Essi sono dei grandi individualisti, i corrispondenti contemporanei degli artisti delle botteghe umanistiche del cinquecento: nel rapporto privilegiato che hanno istituito col Principe, la loro capacità si realizza nella dimensione dell’interno del Palazzo, ma sognano la responsabilità di costruirne l’esterno. Infine i grandi del Movimento Moderno. Tutti i Maestri, da Behrens a Van de Velde, da Wagner a Hoffmann, oppure Le Corbusier, Mies, Gropius e Aalto, fino a Gio Ponti, sono stati architetti che “facevano” anche i designer. Ma questo non è dovuto alla possibilità di sovrapporre i metodi dell’architettura e del design, bensì al fatto che tutti loro, prima di essere progettisti, sono stati degli inventori di interi “modi di vedere il mondo”, sono stati utopisti di strutture abitative complete: e fra esse c’erano indifferentemente le case, i mobili o i casalinghi. Niente sintesi delle arti e niente metodologia progettuale in loro, nel passare dall’idea di un bicchiere a quella di una cupola: ma il bisogno di organizzare il territorio a tutti i livelli, di catalogare e dividere tutti i comportamenti umani come in una enciclopedia.
Al variare, dall’epoca moderna ad oggi, dell’interesse degli architetti al fenomeno progettuale del design, corrispondono - come si è visto qui sinteticamente - articolazioni molto diverse del problema, frutto di tempi e di ideologie assai lontane. Resta il fatto, fondamentale, che le più importanti opere di design sono quasi tutte inventate da architetti. E perché, ci si può chiedere anche, esistono tanti architetti-designer ma non c’è invece l’opposto, cioè i designer-architetti?
Come mai un designer non è capace di disegnare una casa? È una questione, a mio avviso, di diversa dimensione della preparazione culturale: colui che sa lavorare su problematiche complesse può spostarsi agilmente su temi più semplici, ma raramente succede il contrario.
Il discorso si gira allora sulla didattica, sulle scuole di architettura e su quelle di design. Ma qui interrompo queste mie osservazioni.