Artforum. Column n. 4

Alessandro Mendini, 1987

Ci siamo abituati, per convenzione, a dividere il nostro secolo circa in decenni. In effetti, gli anni trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta e ottanta segnano davvero delle svolte radicali nei concetti dell’arte, della filosofia, della morale e dei linguaggi. Mancano poco più di dieci anni al 2000, e sorge giusta la domanda: con quale tipo di oggetti, di ambienti e di comportamenti abitativi l’uomo si affaccia al nuovo secolo?
Anche il Centro Georges Pompidou di Parigi è coinvolto da un decennale, compie i suoi dieci anni di vita. Per questa occasione Francois Burkhardt, direttore del dipartimento di creazione industriale, realizza una importante e complessa mostra dal titolo “Nouvelles tendances: les avant-gardes de la fin du siecle”. L’intenzione è quella di mettere in evidenza quelle correnti del design che meglio esprimono le idee e le tensioni verso il prossimo futuro. Questa è la formula della mostra: per approfondire il tema, Burkhardt ha preparato un lungo documento teorico, e poi ha proposto a otto designers di realizzare ciascuno un grande ambiente (ottanta metri quadrati) che rappresentasse la sua più attuale e precisa visione progettuale. Gli autori invitati, che hanno svolto assieme ripetute discussioni a Parigi, sono Arad (Gran Bretagna), Deganello (Italia), Hollein (Austria), Kapliky e Nixon (Gran Bretagna), Kita (Giappone), Mariscal (Spagna), Mendini (Italia) e Starck (Francia). Il paradosso e la contraddizione presenti nel titolo sono davvero interessanti: possono essere contenute delle “avanguardie” dentro a un. vecchio secolo che muore?
Al di là della descrizione dei singoli lavori, che rimandiamo al catalogo, questa mostra induce ad alcune utili osservazioni sulla condizione, presente e futura, del progetto. Infatti le opere degli architetti scelti, nonostante le grosse differenze ideologiche e metodologiche, permettono dei ragionamenti comuni. Certamente l’uomo è il centro dell’attenzione, il primo problema di tutti quei progettisti, evidentemente in relazione al design. Dove comincia l’arredo? L’architettura comincia dal fuori o dal dentro? Sulla base di una ipotesi antropologica e antispecialistica delle discipline, l’arredo comincia col vestito. Che differenza c’è fra me nei rapporti con la mia giacca, e me nei rapporti con la mia stanza? C’è solo una differenza di distanza. Infatti entrambi sono, per me uomo, degli arredi più o meno vicini al mio corpo. Allora, almeno come concetto, più l’architettura sarà “molle”, meno sarà stabile, duratura, meglio nel futuro sarà. Infatti la difesa di cui ha bisogno l’uomo non è una protezione solo fisica ma è una protezione anche mentale, e questa esiste solo dove l’architettura è intesa come spazio concavo, non come monumento convesso, ma come traslazione del ventre materno: colori delicati, parti rarefatte o liquide, sensazioni, ombre, luci e suoni, intesi direttamente come materiali del progetto. Mi sembra interessante questo: che tutti quei progettisti tendano a concentrare qualsiasi fatto abitativo nel baricentro della persona umana. E che cosa è che resta immutato nel passare dei secoli, anche dal nostro a quello venturo? Immutata resta quella serie di problemi che hanno a che fare con la morte. Esistono dei fatti che l’uomo, nonostante la tendenza alla trasformazione di sé stesso, non potrà risolvere nemmeno nel 2000: sono appunto il problema della morte, del dolore, della paura, della solitudine, della violenza, del sesso, tutti quei fatti che hanno a che fare con l’uomo mitico. È comune perciò la tendenza verso un progettare romantico, sentimentale, integrale, con l’attenzione verso quelle civiltà oggi nel mondo, culture europee, americane, indiane, africane, anche giapponesi, dove il pensiero non è fondato sulla base della razionalità, ma sull’intenzione mitica dell’esistenza dell’uomo. Allora si può prevedere che le immagini delle “nuove cose”, degli oggetti di domani, saranno discrete, psichiche, polimateriche, policrome, anti-meccaniche, quasi evanescenti e senza forma, da usare e comandare a voce o con un soffio: degli “oggetti-non-oggetti”, il paradosso, forse, di una “informatica artigianale” per quel tipo di uomini molto artificiali, per quei “robot sentimentali”, che noi già siamo.