Rubrica per Modo

Alessandro Mendini, 1987

Ho nella memoria come cose lontane, e quasi non più appartenenti a me, i tre “editoriali” che scrissi quando iniziai la direzione di Casabella (1970), di Modo (1977) e di Domus (1980) (ed ho nella mente pure i “congedi” che feci quando lasciai, una dopo l’altra, quelle riviste). Ricordo che ogni volta, quando iniziavo a pensarle, mi importavano sempre le stesse due cose: da un lato concepire la “rivista di design” come un sensibile sismografo, capace di registrare di tempo in tempo le scosse che subisce la parola “progetto”; dall’altro lato evitare di crearmi un pulpito al quale esercitare del terrorismo culturale. Per quanto riguarda Modo, l’idea di base fu quella di voler contaminare la purezza asettica del discorso sul progetto elitario, tipica della storia delle riviste di architettura, facendola reagire con l’energia del profitto di massa. Volevo superare il moralismo tipico della letteratura del Movimento Moderno, usando (appunto) un MODO e delle moralità diverse, volevo mettere il progetto in relazione diretta con la vita, con le gioie, i dolori, i comportamenti delle persone. Questo era il tema: pensare agli “strumenti” adatti agli uomini di “altre” realtà, a un nuovo infinito (e capovolto) mondo di oggetti non solo giusti, necessari, anti-autoritari, ma anche allegri, fantasiosi, rituali, divertenti da comperare, vendere, scambiare, prestare, regalare e distruggere. Questo era il metodo: dare al lettore stimoli critici ed esporgli documenti, notizie, dubbi, verità e anche paradossali falsità perché egli potesse elaborare la propria sintesi personale. Riuscì quell’intenzione? Una rivista è un atto di entusiasmo che solo il lettore può giudicare. Ma una rivista è anche un contenitore che i vari direttori uno dopo l’altro riempiono di idee differenti: e proseguendo la sua vita, so che Modo ora inizia un nuovo ciclo, che spero molto fortunato!
Cosa posso dire oggi sulle riviste di design? Tutte mi sono indifferenti, così come tutte mi attirano: sulla loro formula ideologica vince ora la quantità dei materiali, che tutte le testate riciclano in un flusso continuo e omogeneizzato, in una specie di internazionale dell’informazione. Perché quello che è difficile oggi, che a me ora non è possibile, è trasmettere obiettivi certi, dire “cosa” e “per chi” e “perché” progettare. Per quanto mi riguarda, non so pensare a precisi segni dei tempi e a trasformazioni generali (razionali o bibliche) a visioni globali del mondo. È per questo che una volta fui capace, ma ora invece “non posso” inventare una quarta  rivista!
In mancanza di questi obbiettivi, compio comunque un lavoro  “oggi” importante: mi concentro in me stesso, e sviluppo il mio pensiero (di oggetti e di visioni) con la sola ipotesi di dare vita a forme espressive ma senza messaggio, simili al frangersi di un’onda. Compio un “gioco di design” chiuso dentro a se stesso ed al rigore delle sue regole: sono “in attesa di eventi”.