Per Veronique Bigo

Alessandro Mendini, 1988

Fra l’idea che c’è dentro la mente di un designer e l’oggetto realizzato, ci sono quei “mezzi” che ne permettono la realizzazione concreta, cioè la matita, i colori, le carte, il disegno, che svolgono la funzione tecnica di trasmettere dei dati. Talvolta questi mezzi aumentano il loro ruolo e il loro fascino, tanto da costituirsi in opera autonoma e rientrare nella espressione estetica. Questa ultima operazione, sviluppata da qualche designer in modo più o meno esplicito, viene invece assunta come ipotesi di lavoro pittorico da Veronique Bigo. C’é bisogno, oggi, di oggetti lontani e immateriali, visti tutti sotto forma di poesia. Mentre la vita e gli oggetti realizzati si muovono troppo vorticosi, è importante vedere degli oggetti moderni trasformati in classiche nature morte; forse Veronique è la prima a esprimere questo fascino in maniera tanto esplicita. Si tratta di pitture/design”, di un paradosso completo e definito in sé. Sono cose vere trasformate in immaginarie, oggetti divenuti mentali, dentro a spazi, a scenari di grande tela grezza e bianca, che sprofondano nella storia della pittura. Ma niente realismo e niente pop. Il design, si sa, non coincide solo con l’opera realizzata, ed è di oggi la polemica fra design-pittura e pittura-design, da quando è emerso come fondamentale il gradiente artistico che esso sottende.
La pittura di un oggetto può coincidere con l’opera effettiva, pittura e oggetto si sovrappongono, la pittura é essa stessa un oggetto, il rapporto fra vero e rappresentato diviene ambiguo, la realtà diviene apparizione: ecco allora i quadri di Veronique.