Dimora ideale

Alessandro Mendini, 1988
Abitare, 1988

La “dimora ideale” è uno status abitativo destinato a non concludersi mai, ad essere sempre uguale ma sempre diverso da se stesso. Questo tipo di casa, oggi, non é appariscente, è una specie di riferimento minimalista a ciò che in altre epoche fu la grande dimora. Più che un’opera sintetica è una sommatoria, un puzzle, un mosaico, una “apertura”, una sequenza sospesa e ricca di attese. La nostra casa di solito è una sola, e quasi sempre piccola. Allora, all’opposto, il suo arredamento deve essere fatto di tante idee che la frammentino in molte arti e situazioni differenti, fino al limite di fare non solo pareti, pavimenti o lampade sempre diverse, ma addirittura di dire che ogni pezzo della casa può avere un suo vero e proprio stile, per esempio medievale, moderno, neoclassico, pop, rustico, indiano. Una volta vigeva il concetto dell’uniformità, ora quello della diversità: due modi opposti di intendere la vita nella casa. In realtà, al di là della sua concreta abitazione reale, ognuno di noi ha una casa mentale molto più articolata, frutto dì parti di case possedute o sognate: quella del padre, dell’amico, della, fidanzata, della villeggiatura, della malattia... È il bisogno di personalità contro l’anonimato della serie, di identificazione contro il grigiore della funzionalità. L’arredamento diventa il teatro della vita privata, quella scena, sommatoria di immagini e di ricordi, dove ogni cosa è finalizzata a creare la “casa palcoscenico”: ecco la “chiave” attraverso la quale pensare a tutti gli oggetti, anche a quelli dì design.
Non lavoro per motivi direttamente ideologici, né per creare oggetti funzionali. La mia vocazione è un istinto: quello di cercare dentro e fuori di me (nella memoria, nella storia, nei luoghi, nelle persone, raramente nella natura) dei segnali visivi; e di elaborarli e di restituirli secondo una certa logica, di trasformarli in “realtà”. Questo é il mio unico e labirintico lavoro. Sono un progettista che applica all’architettura e al design certi metodi tipici del comportamento dell’artista; e viceversa, sono un pittore che per dipingere usa certi metodi tipici del progetto. La mia è una attività ibrida in bilico fra queste ed altre discipline (grafica, scultura, moda, performance, critica), che trova fra di esse non una esigua linea di confine, ma grandi spazi liberi dove operare. Mi interessano i nodi più delicati della creatività individuale e collettiva, l’azione di montaggio e smontaggio di tali meccanismi, che mi inducono a formulare degli slogan: robot sentimentale, design banale, architettura ermafrodita, cosmesi universale, artigianato informatico, design pittorico eccetera. Progetto delle “cose” come messaggi sfuggenti, dove determinanti risultano certo il segno, la decorazione, il colore; ma anche la disponibilità errabonda della loro fragilità e indeterminatezza. Come ideatore di immagini cerco di applicare a queste cose dedizione, originalità, cura, moralità, e addirittura un distaccato amore: di realizzare cioè la mia testimonianza; la mia personale stella - più o meno brillante - nella costellazione dei linguaggi estetici.