Artforum. Column n. 5

Alessandro Mendini, 1997

È ora di porre attenzione ad un fenomeno diffuso in molti punti di tutto il mondo: in Giappone, in Spagna, negli Usa, in Italia, in Francia eccetera, quelli che chiamerei i “Designer Giovanissimi” sono una realtà: e bisogna cercare le novità di cui sono portatori.
Proviamo a farne, qui, una breve analisi.
I designer giovanissimi producono “Opere-prototipo”, quasi fossero sculture, molto eclettiche, con molti materiali diversi, con una immagine molto personalizzata. Questi designer sembrano rinunciare alla certezza assicurata dal dilagante linguaggio gioioso e amorale che oggi è divenuto istituzionale, e percorrono strade incerte, tortuose e antiche, per trovare oggetti al di là di un’idea breve del tempo, in una visione ampia del rapporto fra passato, presente e futuro. Sembra che le loro opere e i pensieri derivanti dai loro oggetti, vogliano essere come ago-punture nel flaccido corpo di un contesto sbagliato: a favore di una nuova idea di uomo, e di una nuova idea del rapporto fra progettare, produrre e vendere. Essi sono romantici, ma pure rigidi, e criticano duramente le mosse dei professionisti che già hanno una carriera alle spalle, le scorie lasciate da noi, persone contaminate da anni di lavoro e di esperienza. Questi giovani tendono a vivere un progetto di disponibilità, che conduca verso nuovi oggetti non violenti, calmi, poetici, delicati, adatti ai luoghi dove svolgere i riti e le fantasie di persone vive, di una vita non solo tecnologica ma anche arcaica. Cercando una mappa di riferimento al loro operare, essi sembrano pensare ai materiali e alle tecnologie di oggi, ma assieme pensano magari a Donatello, a Freud, e anche al kitsch, alla natura, all’oriente e alla religione. I designer molto giovani sembrano avere la certezza che il design è prossimo a un grande cambiamento, la cui caratteristica però essi ancora non afferrano, non sanno bene mettere a fuoco nelle sue troppe fisionomie, nelle sue realtà sociali troppo sfuggenti. Come se si trattasse di una situazione di “Black design”, di un design dove, per il momento, si “vede nero”. Cercando di andare alle radici del problema, sembrano domandarsi se sia ancora utile usare per questo genere di cose la stessa parola DESIGN, oppure se essa tenda a perpetuare equivoci tardo-industriali e strutture sorpassate e schematiche di riferimento, quando forse si potrebbe riproporlo dentro al millenario flusso delle arti applicate. Questi giovanissimi “TELE-ARTIGIANI” usano il metodo di auto-difesa tipico, appunto, dei giovani, che è quello di scartare istintivamente l’aggressione data dalla disciplina ufficiale sulla quale poggiano i valori del design che già c’è: si stanno liberando dall’oppressione di tante parole - specializzazione, funzione, standard, professione, serie, tipologia - cercando di ri-progettare, o di de-progettare ex novo un loro “diverso” problema progettuale. Perciò in questa epoca, dove uno dei punti più certi è l’attitudine pluri-generazionale verso il “pensiero incerto e labile”, essi dimostrano la forza di esporsi verso l’ignoto, alla ricerca (dopo tanti anni di dominio prevalente della cultura logica) di generi di design umanamente più completi e stratificati, di DESIGN EMOZIONALI. Per fare ciò essi scrollano via tutto da sé, anche i riferimenti più sicuri, quelli che sono ancora la momentanea salvezza di molti: la neo-avanguardia italiana da un lato (con Alchimia e Memphis), e il fascino metodologico della scuola di Ulm dall’altro lato. Essi non sembrano adeguarsi, non gli basta entrare nella scia sicura del manierismo imperante. Vogliono rifondare e mettere in difficoltà tutto quanto hanno davanti di già costituito; vogliono partire liberi per la loro avventura ideativa, affascinati dal rischio sconosciuto, nascosto più dentro che fuori di loro. Essi mettono in gioco la loro stessa credibilità, il loro isolamento, spesso senza possibilità di ritorno: gli eroi di un DESIGN VAGANTE per una comunicazione profonda fra le persone, mentre il DESIGN INFORMATICO dilata all’infinito il proprio freddo cervello.