Design a Milano

Alessandro Mendini, Casabella 1997

Nel panorama internazionale il ruolo del design italiano è stato per tradizione e tuttora è di tipo "estetico". Se i tedeschi sono tardo -funzionalisti, se gli scandinavi sono naturalisti, se i giapponesi sono miniaturisti (eccetera), noi italiani siamo invece estetici. Proprio le nostre caratteristiche genetiche ci indirizzano verso un design sensibile all'antropologia estetica, a sporgerci verso la direzione del bello e del rituale (nel bene e nel male). Di decennio in decennio dagli anni cinquanta, e nonostante le profonde divergenze di metodi ed espressioni, la mentalità della bottega rinascimentale si è tramandata fino ai computer dei nostri studi professionali e ai robot delle nostre industrie. Mentalità che ha segnato una linea di continuità, un minimo comune denominatore, una mancata scissione fra l'industria e le arti minori e applicate. Col passare dei vari decenni (sessanta, settanta, ottanta, novanta) le istanze del nuovo design sono cambiate e si sono contraddette periodicamente, passando attraverso alterne durezze e fortune. Il nostro design è passato dall'essere milanese (con le radici nel proto-razionalismo cittadino), all'essere italiano in senso lato e mediterraneo, per poi subire il processo di creolizzazione dovuto da un lato all'immigrazione dei designers stranieri, dall'altro all'emigrazione di quelli milanesi. Nonostante il mito di certi anni d'oro (i tempi del Bel Design non tornano più), penso che il momento attuale sia fra i più ricchi e densi. Mi riferisco alla suspence creata dalle ricerche metodologiche in atto, all'alta ossigenazione internazionale ed etnica, alle trasformazioni epocali che proprio oggi avvengono sul terreno delle sensibilità sociali e delle strutture economiche. Il forte senso di approccio alla "bellezza", cui accedono automaticamente anche gli stranieri che vengono a lavorare qui, è dato dalla nostra caratteristica (che magari è un difetto), quella dell'individualismo: che ricadendo a pioggia anche sulle attitudini delle industrie piccole e grandi, induce a definirle come vere e proprie "fabbriche estetiche", produttrici di strumenti funzionali sotto forma di arte moltiplicata. In questo periodo di aspra violenza, di malcostume politico, e di sfruttamento mercantile dell'ecologia e della new age, dove è massimo il degrado della città di Milano, resta comunque un fatto sbalorditivo: che l' "humus" del design "qui" continua ad essere un mitico sistema di grande energia progettuale, che attrae forze da tutto il mondo, fertilizzato anche dall'attività e dai metodi degli stilisti della moda. Un sistema critico, si intende, dato che si svolge su sabbie mobili, dove tutto scivola e non vi è alcun componente che non sia in trasformazione: dalle mentalità professionali, alle formule industriali, ai materiali, alla sensibilità del pubblico, ai caratteri della comunicazione, eccetera. Un enorme concentrato di problematiche ben più complicate che nei precedenti decenni, risolvibili nel loro verso giusto solo se affrontate sulle basi umane di una "nuova moralità": una visione estetica, vorrei dire, sub specie morale.