La Metropolitana di Napoli

Alessandro e Francesco Mendini, 2001

La Metropolitana di Napoli si sta ampliando, nella nuova linea ci sono due stazioni progettate dal nostro studio in sequenza una con l'altra. Per la prima stazione realizzata, Salvator Rosa, ci siamo trovati a lavorare in un tessuto urbano estremamente deteriorato, in un luogo di grande speculazione edilizia degli anni '60 e '70, pertanto in una specie di orrido urbano, una enorme fossa di frontespizi, così che all'inizio era arduo affrontare il tema.
Sottoterra la nostra nuova stazione è molto moderna; a quota stradale invece ci siamo capillarmente adattati a qualificare il tessuto urbano esistente. Abbiamo poi pensato di fare una specie di panoramica degli artisti napoletani contemporanei inserendoli nel nostro contesto ed abbiamo accettato, indipendentemente dal loro gergo, sulla base di una selezione di qualità generale e con la consulenza di Achille Bonito Oliva, vari linguaggi artistici, e li abbiamo collocati in punti appropriati del progetto. Da parte nostra l'intenzione è stata più che di selezionare l'artista, quella di includerlo intimamente nella composizione dell'architettura.
L'ipotesi è che un nodo di intenso interscambio quale è una stazione, possa fungere anche da museo di transito, all'aperto. Questa opera esprime un concetto generale di arredamento urbano cui da tempo stiamo lavorando.
La scena urbana, infatti, ha un obiettivo preciso, consiste nel progetto del bello e delle forme degli spazi pubblici.
A questa utopia del bello nella città ci riferiamo con l'idea di andare oltre all'idea tardo funzionalista dell'arredo urbano. Le piazze, le strade i mercati, le passeggiate e i loro allestimenti vanno considerate come opere estetiche, come spezzoni di teatro esterno dotati di senso emotivo e antropologico, adatti a coinvolgersi profondamente con gli abitanti, ad essere dei palcoscenici per i cittadini.
L'architetto, il designer, l'artista, lo scenografo, il grafico, il progettista delle luci, sono gli operatori di queste opere integrate, siano esse grandi o piccole.
Il cosiddetto arredo urbano moderno e contemporaneo arriva da tutt'altra cultura. Sembra proprio che i suoi elementi e oggetti costitutivi siano stati progressivamente castigati e succhiati al ruolo sterile di funzioni aride, tanto quanto è arida la vita quoidiana che l'uomo della megalopoli svolge nel suo piatto reiterarsi monodimensionale privo di ritualità. Panchine, cestini, pensiline, autobus, paracarri, fioriere, eccetera, sono come dei freddi naufraghi in una realtà urbana che li respinge e che velocemente li trasforma in rifiuti.
Per ritrovare la sua motivazione profonda, la radice del suo essere, il disegno urbano deve attingere e collegarsi a culture precedenti a quelle industriali. In sostanza, l'arredo della città deve porsi come scenografia.
Si tratta del preciso genere di un'architettura non destinata a contenere, fatta di quinte, di pavimenti, di chioschi, ed anche di singoli oggetti.
E dell'architettura ha proprio il compito, che è quello di accogliere, di creare simpatia e voglia di una frequentazione colta, ovvero cerimoniale e ammirata.
I giardini barocchi, le fontane di Roma, le piazze medievali, gli spazi zen sono i referenti lontani di questo atteggiamento progettuale. E poi la presenza di opere d'arte nella città, un sistema di punti nodali ad alta intensità emotiva, adatti a fare da referenti emblematci per il cittadino che si deve spostare: un patch-work estetico e visivo.