Arte e Architettura

Alessandro Mendini, 2002

L’arte e l’architettura. L’arte visiva ricerca immagini al di là delle funzioni, ha quindi un obiettivo “puntuale” che le permette di arrivare più a fondo rispetto a chi è condizionato dalla burocrazia, dal denaro dell’industria, dalle esigenze. Questo non significa che l’artista sia un puro, l’artista è un uomo di mondo, un manager, vedi oggi Maurizio Cattelan capace di traslare tutta la sua ricerca sul piano delle tecniche di comunicazione. Questa peculiarità dell’arte visiva mi interessa e cerco di applicarla, anche quando devo rimanere all’interno dei limiti pratici del fare architettura. In molti casi mi comporto adottando la metodologia dell’artista. Cioè, per un oggetto di disegno industriale o un’architettura, parto ovviamente dalle esigenze concrete, e va benissimo, ma poi, appena possibile, faccio prendere il predominio all’immagine. Sono convinto che risolvere la funzione sia facile, risolvere l’espressione molto difficile. La creazione di un feeling tra la persona e l’opera è il goal. Un oggetto non è mai solo uno strumento: anche Dieter Rams è un poeta, e non, come lui finge di credere, solo un funzionalista. Io procedo per assemblaggi a patchwork, in una maniera che non è sintesi, ma accostamento anche stridente. Paragono la scena generale del mondo delle immagini oggi a un magazzino di teatro, dove trovi una colonna dell’Aida vicino a un vecchio pezzo di Balla o di Verner Panton. Abbinamenti improvvisi e imprevisti di materiali e misure. Catastrofi territoriali. Siamo in un’epoca di grande violenza, anti-idillica. Il mio lavoro, diciamo positivo esteticamente, è un tentativo di rovesciare la negatività del reale. Le arti oggi si assemblano e non si sintetizzano. Assemblare e non sintetizzare: viaggiare in Internet, guardare la televisione, leggere qua e là un giornale. La vita è fatta di frammenti. A un certo punto devi riuscire a portare in prospettiva, fuori di te, e capire cosa stai facendo.
Gli autori fondamentali del passato cui guardo sono magari Vitruvio, Giotto, Piero della Francesca, le suore di clausura. Situazioni legate alla sapienza oggettiva. Dopo di che, man mano che ci avviciniamo a noi, il terreno diventa labile. Su che fondamenta poggia il nostro lavoro oggi? Sulle sabbie mobili. Per questo è oscillante e, per oscillazioni, deve stare in piedi. In questo non è certo vitruviano. Potrei definirmi “Fragilista”. Ogni tanto mi piacerebbe essere come Giorgio Morandi: tutta la vita con le sette bottiglie, da spostare di poco. C’è chi lavora su un solo luogo e chi fa sondaggi in vari punti. Quello dell’ecclettismo può essere un destino drammatico. E’ molto dispersivo, inimmaginabile dal punto di vista della fatica: vagare senza meta. Andy Warhol era così, indagava tecniche, situazioni, criteri di comunicazione. D’altra parte non è vero che solo l’arte è più avanti. Le anticipazioni possono arrivare da altre zone e dovunque bisogna cercarle.
Mi sono trovato, a volte, con il passare del tempo, ad avere a che fare con l’organizzazione dello spazio di una famiglia, di una persona. Cioè di chi mi porta le sue esigenze psichiche, in un percorso mentale: ecco un bel goal per un progettista.
Preferisco immaginare una casa per pochi piuttosto che una casa composta di 100 alloggi, ove l’interlocutore è la massa e devi arrivare a una neutralizzazione del luogo. Il sociale non è una massa, ma una somma di singoli. Mi succede anche col design: io penso per una persona cui dedico il mio lavoro. Solo dopo questo lavoro viene moltiplicato. Io non so fare il progetto di massa, preferisco addirittura non pensare a nessuno, non credo al marketing. I
n ogni caso, la cosa importante è avere rapporti con la psiche degli interlocutori. In una casa, in un ambiente di lavoro od altro, tento sempre di mescolare le carte in tavola: se progetto le stanze di un museo faccio finta che appartengano a una casa, se progetto una casa cerco di renderla un po’ palcoscenico. L’ufficio diventa un po’ sacrale o mussale: una sorta di circuito dove le persone provino un certo grado di spazzamnento che le renda attive nel pensiero. Qualcosa di cui possano essere incuriosite. In una casa, invece che in soggiorno stare in un ambiente più generale e interessante, per esempio una biblioteca o un luogo Internet, invece che nella stanza da bagno in un ambiente umido, ginnico, termale. Uno sciogliersi delle funzioni in ambienti promiscui: un’ipotesi analoga al loft americano, ma cui si arriva per un’altra strada.
Il mio lavoro metodologico e sistematico, però poi agisco d’istinto. Posso tracciare una precisa distinzione tra gli spazi progettati per altri e quelli pensati per me. Gli spazi che progetto per me non esistono. Sono una di quelle persone che non sanno abitare. Abitare vuol dire organizzare il luogo della vita privata in modo che sia un preciso riferimento fisico, intellettuale, emotivo. La mia casa a Milano è un po’ monacale, vuota, fragile, vagamente provvisoria. Ho bisogno di questa “scostanza abitativa” per stare bene. Poi c’è la casa di Verona, quella di mio padre, la campagna, una casa del Seicento che non uso solo io, ma anche le mie figlie. Adesso che devo sistemarla ho chiamato due giovani progettisti. Michela e Matteo, io non la si affrontare… D’altra parte per me è normale, anche nel nostro Atelier si fa un lavoro di equipe. Il vero leader è mio fratello Francesco pure architetto. Delego molte decisioni agli altri, ad esempio mi si dice che sono uno specialista del colore, ma in realtà dò solo una breve occhiata…
Esiste con i miei collaboratori una reciproca dipendenza: su certe cose, se sono solo non so fare niente… Allo stesso modo non so assolutamente lavorare su un unico progetto. Se non ho molte cose da fare, e molto diverse, non riesco a concludere nulla… Se in un periodo sto procedendo a certe ricerche linguistiche, le farò interagire su progetti diversi. Però dei lunghi giorni di assoluta solitudine mi sono essenziali… Non penso che una cosa sia più importante dell’altra. Mi interessano le relazioni tra le cose in questa specie di via lattea che è il mio lavoro, anche se a posteriori alcuni risultati rimangono più di altri. Come la Poltrona di Proust che è un concentrato della mia teoria. Contiene il “non mettere a fuoco”, l’evanescenza, una leggerezza quasi pulviscolare. Contiene l’evidenza di aver ottenuto, per decisione letteraria, un oggetto senza progettarlo, connettendo due immagini incompatibili una con l’altra, cioè una poltrona falsa e il prato di un quadro di Signac. L’antichità e il nuovo, il puntinismo sia come mosaico sia come pixel televisivo, la frammentarietà, la decoratività. Quello che cerco nei luoghi, anche in un interno, è la loro entità spirituale. Sarà che credo alla permanenza delle emozioni che sono transitate negli spazi, negli appartamenti. La mia casa di Milano, per esempio, era una casa operaia, oggi è la somma dei locali in cui abitavano un manovale, un muratore, una donna anziana. Ecco, li ho lasciati così come erano, perché queste precedenze, questa povertà sono estremamente umane, e si sentono ancora. Sono sensazioni più profonde di quelle che dà un’opera d’arte. L’antropologia di un luogo supera spesso il disegno che a quel luogo imponiamo. Per questo, quando progetto, sento e utilizzo la carica emozionale dello spazio.