Giacca geometrica

Alessandro Mendini, 2004

Un architetto che disegna un abito compie tre cose giuste e una sbagliata. Quelle giuste sono il fatto di saper decidere una forma, il fatto di disegnare sul tessuto una decorazione sul tessuto, e di scegliere dei colori.
Queste cose vanno bene, le sa fare, fanno parte del suo mestiere. La cosa sbagliata, invece, è evidentemente quella che l’architetto non sa fare: infatti l’architetto non è capace di creare, di concepire quel rapporto intimo, privato, carnale e seduttivo che si determina fra l’abito e il corpo di colui che lo indossa. L’architetto conosce materiali più duri, spigolosi e scostanti, incapaci di accarezzare il corpo umano.
Ma non è allora proprio qui, nell’affrontare questo affascinante sbaglio, la sfida che è bello vincere? Ecco allora che talvolta, con grande ansia e fatica, l’architetto progetta un abito e magari ci riesce.
Riesce a cogliere quella immateriale essenza che rende “abito” un abito. Il gioco, di fare abitare un abito invece che una casa. Infatti l’architetto è abituato a fare le case e forse anche le case sono degli strani enormi abiti.
Ma le case devono durare cinquanta, cento, duecento anni, non una sola stagione.E qui l’architetto non si adegua. Gli viene voglia di disegnare un abito al di fuori della moda, valido al di là del tempo. Un “abito continuo”, un bel paradosso se pensato oggi. Un abito sempre uguale per cento, duecento anni…