Andries Van Onck e Hiroko Takeda

Alessandro Mendini, 2005

Da un lato i difficili pensieri sui processi generativi delle forme, dall’altro lato il ricordo del vestito nuovo di velluto a coste nero, comperato per andare a frequentare la scuola di Ulm. Un vestito che doveva durare tutti i quattro anni.
Mi scuso con il lettore, e ancora di più con Andries Van Onck e Hiroko Takeda, se comincerò la mia breve introduzione al loro libro, pensando a me stesso.
La mia domanda è questa: come mai Van Onck ha chiesto proprio a me di commentare il suo più importante libro, quello che riunisce come in uno scrigno il lavoro di tutta la vita sua e della sua compagna? Come forse è noto, il loro e il mio procedere nei meandri del design è così distante, così agli antipodi!
OK, certo, ci sono sempre grandi sorrisi quando di rado ci si vede. Questo sì, ma evidentemente non basta per gettarmi addosso tanta responsabilità. A pensarci bene però, mi sembra che in questa richiesta ci sia qualcosa di ben più intimo e profondo della sola simpatia. Qualcosa anche di più radicale rispetto al progetto. Ovvero, proprio mi sento di dire: quello che ci accomuna è il senso morale con il quale entrambi guardiamo verso il progetto. Questa richiesta di senso legato alla coscienza è ciò che da sempre turba lui e anche me, in questo mondo sempre più duro e angosciante. Siamo come due fratelli fra loro sconosciuti, lontani, con esistenze, esperienze, convinzioni, idee e ideali opposti, ma pur sempre fratelli. Rietweld e Max Bill per lui, Gaudì e Rudolf Steiner per me. Non è pensabile a due vite di designer percorse in modo più diverso. Eppure sono qui ad ammirare il fascino e la precisione della sua strada, così come vorrei presto chiedergli in cambio di commentare la mia. La morale, dunque, la legittimazione, l’utilità sociale del nostro operare.
La morale di Andries van Onck: aprirsi a tutti gli scenari di ogni tipo, ma agire applicando la ulmiana speranza metodologica di integrazione fra l’utile e il bello. La mia morale: assorbire tutti gli stessi scenari, agendo però nel disincanto di un patchwork fra artistico e banale, forse privo di speranza. Quello che ci accomuna è il progetto inteso come romanzo di sé stessi, impudica esistenziale testimonianza come luogo di esattezze, ma anche di ritorni, umori e chiacchiere, di buona tavola e di brainstorming con interlocutori talvolta addormentati. “Il senso delle forme dei prodotti” è il titolo del precedente libro di Van Onck, un notevole manuale per indagare nelle logiche del design.
L’analisi degli scenari lo avevano indotto allora a tenere sospese le conclusioni teoriche. Ora il titolo del nuovo libro è “Avventure e disavventure di design”. Un titolo-sceneggiatura che si presenta come un programma, con il maturo distacco di chi sa che non si può cercare più di tanto il senso delle cose, perché esso è confinato nell’utopia. Quello che conta è la fissità, la continuità labirintica, il filo d’Arianna del lento lavoro che si snoda giorno dopo giorno in tutti i disegni, in tutti gli incontri, nella aneddotica della vita quotidiana di designer.
“Il gambo di un bicchiere rappresenta meno una presa per la mano che un espediente per conferire alla coppa e alla bevanda una nuova dignità, che la sollevi dal suo piede terrestre, con un gesto divino”. Chi ha scritto questa emozionante frase, Van Onck oppure io? “Il design è la ricerca della stabilità locale in un sistema globalmente instabile”.
“Le innovazioni delle forme creano turbolenze che agiscono nella nebulosa dell’immaginario collettivo”.
Come si capisce, a sua insaputa la seduzione del linguaggio simbolico stimola il pensiero di Van Onck, così come più apertamente stimola il pensiero di Hiroko, che da raffinata designer giapponese contiene il rito in se stessa. Una quantità di avventure e disavventure attentamente schedate in questo libro. Un diario che attraverso il commento capillare esprime via via un organico sistema di concetti di una carismatica coppia appartata, che fingendo di avere la famosa prospettiva della rana, cioè una visione dal basso, guarda in realtà dall’alto la folla di tutti noi altri designer, con la compiacente decisione-derisione di risparmiarci il suo giudizio.
L’originalità di questo libro consiste nell’illustrare il retroscena sociale e personale di uno studio di design, importante ma eterodosso, nel resoconto delle sue teorie, degli ostacoli, situazioni e motivazioni, lungo cinquanta anni del suo evolversi. Dal piacere del disegno a mano libera fino alla fredda efficienza del computer, sempre in perfetta tensione, decennio per decennio. Dai tempi d’oro del design come impegno politico alla decadenza disimpegnata del design post-moderno, questa è la romantica Odissea di una strana coppia di stranieri, che scelsero il paese del Bel Design come luogo di elezione, anche essi alla ricerca di una definizione della bellezza.