Conversazione. Alessandro Mendini, Giampiero Bosoni

Alessandro Mendini, Giampiero Bosoni, 2005

Bosoni: Sfogliando attentamente la recente raccolta completa dei tuoi scritti ho trovato un’interessante “lettera aperta” ad Achille Bonito Oliva, scritta nel 1988, in cui affrontavi il tema del design  “pittorico” e della pittura “progettata”, un tema che avevi già discusso in una conversazione (1977) con Pierre Restany. Alla luce di questo tuo specifico interesse, ritieni che sia esistito, ed esista tutt’oggi, un rapporto di causa ed effetto, in tutti e due i sensi, tra la ricerca artistica e la ricerca progettuale, e in particolare con quella che viene comunemente definita “design”?

Mendini:  Si, certo. Parlando di queste cose mi vengono subito in mente esperienze di ricerca come il Costruttivismo, e il Futurismo in Italia. Per un tipo come me il Futurismo é stato molto importante, é una specie di convergenza di segni alfabetici, di intenzioni utopiche, trasferibili su due e tre dimensioni, a scala piccola e a scala grande, con cui si è fatta l’architettura, si é fatta la scenografia, l’interior, il mobilio, la grafica e poi anche degli oggetti. Inoltre, tutto ciò, dal mio punto di vista, assume anche un altro valore, dal momento che io tendo a vedere gli oggetti quasi come fossero delle nature morte, tant’é vero che mi piace progettare un oggetto e successivamente pitturarlo per averne un risultato come di natura morta.

Bosoni: All’inizio hai detto che un punto di riferimento fondamentale della tua ricerca è stato il movimento Futurista, ma poi continuando il discorso è emerso un carattere, diciamo, più interiore, per certi versi tra il ludico e il drammatico, più statico (la natura morta), tipico del pensiero metafisico, che mi sembra affiora nel tuo lavoro con rinnovata emozione.

Mendini: Esatto: ci sono queste due componenti. Per esempio se guardi l’opera del pittore Savinio, vedrai che ci sono delle nature morte nelle quali trovi degli accumuli di oggetti che sembrano disegnati oggi dal designer Giovannoni: oggetti ludici, rosa, azzurrini, beige. Oppure quei quadri di Casorati dove vedi un tavolo con su una ciotola, tre uova, che sono praticamente delle specie di progetti o perlomeno interpretazioni degli oggetti, in una maniera quasi progettuale, da parte di Casorati.

Bosoni: In  tal senso, di Casorati abbiamo in mostra alcuni elementi di arredo che lui ha disegnato e fatto costruire come oggetti da riprodurre nei quadri come nature morte e con i quali arredare gli ambienti raffigurati: un interessante trasferimento del modello concettuale del mondo metafisico nella realtà quotidiana.

Mendini: Certo, è così. Ma i barattoli di Morandi, le scodelline che erano state rese opache, pitturandole magari col gesso, in modo che dessero una certa reazione di mancata lucidità; non so come dire, mostrano anche in Morandi questo rapporto fra l’oggetto vero e ciò che lui si é progettato come scenario della propria pittura. Questo rapporto, tra realtà e visione, mi sembra interessante. Quando invece parlo di Futurismo parlo di un’utopia generale, di una sorta d’occupazione stilematica del mondo. Perché secondo me in Italia, dopo la bottega del Verrocchio (per dire un importante modello rinascimentale) intendendo con ciò un  luogo infrartistico dove si faceva dalla scultura all’architettura, alla decorazione e così via, si passa alla bottega del Futurismo, la bottega del Mago di Depero, con anche i suoni, i rumori e tutto il tema della dinamica. Poi segue la bottega del “bel design  italiano”, che inizia a svilupparsi nel dopoguerra, dove ritengo che lo studio dei Castiglioni, il loro atelier, rappresenti, per esempio, molto bene quella felice stagione che gli americani hanno iniziato a chiamare negli anni Sessanta il “good design” italiano.
Poi, ad un livello proprio dei movimenti, colloco su questo filo rosso il movimento radicale lo Studio Alchimia  e a seguire Memphis, anch’essi modelli di botteghe dedite alla ricerca infrartistica. Sono questi dei fatti precisi e sono tutti infilati dalla idea di sintetizzare la funzione dell’oggetto alla sua estremizzazione emotiva: “sub specie d’arte”.

Bosoni: Difatti in quella lettera del’88 ad Achille Bonito Oliva, che hai pubblicato negli scritti, tu parli della tua volontà di affrontare il progetto del design “sub specie d’arte”.

Mendini: (sorride)

Bosoni:  Poi collegavi a questa definizione la tua ipotesi per cui esiste sia una pittura “progettata”, sia un design”pittorico”. Puoi spiegare meglio cosa intendi con queste definizioni  e quale intreccio si é creato tra questi valori. Perché mi sembra che non lo vedi solo nel tuo lavoro, ma lo leggi anche proprio in un contesto che in Italia si è particolarmente manifestato.

Mendini: Si, penso di si, perché, per esempio, una facciata come quella del Palazzo della Stampa in piazza Cavour a Milano, progettata da Muzio insieme al pittore Sironi, che porta al centro una grande bassorilievo di Sironi, é una facciata scultura. Si tratta di una facciata a bassorilievo dove c’é un’integrazione intimissima fra queste due forme disciplinari, architettura e scultura. In certi casi la facciata di una casa, ma forse, anche nella stessa casa del Fascio di Terragni, l’architettura é una specie di maquette ingigantita, oppure di dipinto a scala dell’architettura. Naturalmente, mi rendo ben conto che è una lettura tendenziosa.

Bosoni: Il rapporto  Muzio - Sironi è ancora più interessante se pensiamo che Sironi è stato anche uno stretto collaboratore di Terragni, dove è interessante osservare come il dualismo storico del Novecento milanese e del Razionalismo, abbia conosciuto una profonda relazione di confronto-scontro, attraverso figure come quella di Sironi che ne costituisce in realtà un importante trait d’union, sia estetico che culturale.

Mendini: Ma poi questo carattere si é riportato ai giorni nostri: Sironi, in un certo senso, é diventato Aldo Rossi. Voglio dire, i disegni dell’architettura di Aldo Rossi, così carichi di emozione o di una specie di metafisica, di un tipo molto sironiana, sono praticamente quasi una specie di sovrapposizione alle proprie facciate dell’architettura. Se guardi la facciata dell’albergo che ha costruito in Giappone, oppure il Teatro del Mondo a Venezia, non capisci che tipo di oggetti siano, che formula tridimensionale abbiano, sono un’astrazione ideale che coincide molto con il  proprio disegno pittorico iniziale.

Bosoni: Questo rapporto tra Architettura, disegno degli oggetti d’uso e mondo dell’arte in Italia, secondo te si é mantenuto costante, si é perso o si é confermato solo in certi periodi?

Mendini: Ma, se penso a Munari ,che secondo me è un’ artista, nato futurista, lui ha ideato e progettato oggetti dagli anni ’30 agli anni ’80. Poi penso ad Enzo Mari che ha cominciato con interessantissimi lavori nel mondo dell’arte programmata; se penso anche ai fratelli Castiglioni mi viene subito in mente il loro modo di giocare con il dadaismo. Ma, per esempio, ci sono certi autori che sono molto più strettamente designer, anche se, naturalmente, con un taglio estetico tipico dell’identità italiana. In questo senso Magistretti, tu non puoi dire che si sia comportato da artista. Il suo è il caso di una figura propriamente di designer. Casomai occorre ricordare che é architetto ed appartiene alla fase culturale della ricerca architettonica italiana portata avanti da E. N. Rogers direttore della rivista Casabella nella seconda metà degli anni Cinquanta.

Bosoni: Certo, però con una formazione, appunto, in quel caso profondamente umanistica.

Mendini:  A quell’epoca molto.

Bosoni: Un designer che fondava le proprie radici, come ha affermato spesso Magistretti, sul fatto di aver studiato greco e latino, nel senso di provenire da studi classici,  piuttosto che aver, come si può dire, praticato la scienza delle costruzioni o la scuola di Ulm. Sotto questo profilo alcuni autori ritenuti degli esempi di quello che tu chiami il “Bel design italiano” razionalista, si presentano con un altro atteggiamento rispetto al rapporto con le arti e la ricerca estetica in genere. Per esempio Franco Albini e Marco Zanuso, come li consideri, sotto questo punto di vista?

Mendini: Di fatto, li vedo più come dei designer rivolti alla tecnologia. Tra l’altro tutti e due fortemente legati, in un senso classico, all’Architettura, e non si capisce mai, in questo senso, cos’è che più ci interessa del loro lavoro. Anche il loro rapporto con gli artisti, comunque non mi sembra dedicato a uno specifico interesse di integrazione, é piuttosto un rapporto di collaborazione. Una vera integrazione, a mio avviso, c’è nei primi lavori di Vittoriano Viganò, il quale quando fa quelle piccole gallerie d’arte nei primi anni Cinquanta, si vede che cerca di mettersi in sintonia con le ricerche di Fontana da una parte e di Munari dall’altra. La sua casa per esempio, il suo appartamento a Milano, é veramente straordinario!

Bosoni: A proposito d’intrecci culturali in un tuo testo dedicato agli anni ’70 descrivi il tuo percorso culturale e parli spesso del tuo interesse, si direbbe un’attrazione fatale,  più per l’opera degli artisti contemporanei, che non per quella dei progettisti. In particolare mi ha colpito il riferimento al tuo incontro con Joe e Gianni Colombo quando ricordi : “ammiravo del mio compagno di università Joe la capacità di essere assieme sia un designer che un pittore nucleare”. Una valenza questa di Joe Colombo che si amplifica ulteriormente per il legame naturale che ha con il fratello Gianni, uno degli artisti più interessanti della scena italiana di quegli anni, insieme al quale progetta uno dei suoi pezzi più famosi: la lampada Acrilica.

Mendini: Io li ho frequentati tutti e due, ma come persone separate e non so nemmeno quanto loro si frequentassero in realtà. Perché poi avevano dei percorsi veramente diversissimi. Di Joe Colombo ricordo l’estrema esuberanza un po’ starckiana, dell’estroverso con la spider, il quale evidentemente aveva una zona del cervello informale e per tanto “nucleare”, cioé una specie di rigurgito di immagini libertarie, materiche, dopo di ché, questa rara capacità di afferrare la sostanza di un oggetto, sostanziandolo con materiali nuovi: i lavori per la Bayer e tutte quelle cose.
Gianni era una persona molto più analitica, più fredda, Joe era tutto istinto.
 
Bosoni: La tua esperienza professionale è iniziata come collaboratore presso lo studio Nizzoli, e immagino che la figura di questo designer, dalle importanti origini artistiche, abbia costituito un punto di riferimento per la tua successiva evoluzione progettuale.

Mendini: Diciamo un punto di riferimento virtuale, perché io sono entrato nello Studio Nizzoli, quando lui non c’era già più e non l’ho mai conosciuto. Aleggiava questo nome mitico. Mi sono trovato nello studio Nizzoli, in via Rossini dove Nizzoli negli anni Trenta aveva lavorato con Persico. Certo, posso dire che forse il senso della decorazione, il senso del ricamo, il senso di un design futurizzato mi arriva anche dall’aria che si respirava in quel luogo. Nel caso dell’architettura è stata la formula nella quale io mi sono formato, però prima ancora devo dire c’era stata la formula architettonica di  Portaluppi, quella della casa in via Jan, dove io sono cresciuto:  io sono stato molto attratto da .Portaluppi indipendentemente dai quadri della celebre collezione d’arte dei miei zii Boschi-Di Stefano, con i quali ho al lungo convissuto.
Le decorazioni di quella architettura avrei voluto disegnarle io; forse tendo al plagio, ma ricordo nella casa Boschi un quadro di Severini, molto simmetrico, una specie di architettura stellare, chiara, e ricordo l’aspetto postfuturista di Portaluppi con tutte le punte nella sua decorazione.
 
Bosoni: Quindi la giovinezza vissuta nella casa di via Jan disegnata da Portaluppi, e riempita di quella straordinaria collezione di quadri dell’arte italiana del XX° secolo, ha costituito evidentemente per te la fucina della tua prima, diciamo, alchimia di materiali e di  elementi figurativi della tua poetica, del tuo linguaggio progettuale.
 
Mendini: Certo è stata una cosa importante. Fra l’altro ti devo dire che i coniugi Boschi non frequentavano il mondo degli architetti. In quella casa di via Jan, non é mai entrato il design, tranne qualche poltrona pseudo-Zanuso, oppure i mobili disegnati da Portaluppi.
Mi ha sempre colpito questa assoluta mancanza di interesse, da parte dei miei zii verso l’architettura e verso il design. Tant’é vero che io il design l’ho scoperto dopo, all’università e, poi collegandomi alla mentalità di Nizzoli.

Bosoni: Ma negli anni della tua prima formazione, appunto quelli della scuola degli anni ’50 e poi degli anni ’60 quale rapporto di attrazione o repulsione sentivi tra il mondo del progetto che cominciavi a frequentare e il mondo dell’arte raccolto nella casa degli zii. Coglievi l’emergere di contrasti per te in quel momento difficili da chiarire, o in realtà  il rapporto tra le arti era ancora stretto e  realizzato e sei riuscito a comunicarlo subito.

Mendini: No, c’é stato una specie di sfrido, di frizione, nel senso che, mentre io facevo l’università vivevo in quell’appartamento di via Jan, dove nella mia stanza avevo quadri  di Savinio e di Virgilio Guidi. Io non sapevo cosa si facesse alla facoltà di architettura. Arrivavo dalla campagna, da Verona, ero giovanissimo, 17 anni , e mi iscrivo al Politecnico, facoltà d’ingegneria, perché mio nonno aveva un’ impresa di costruzioni e da quando sono nato mi era stato detto che sarei diventato ingegnere. Al Politecnico scopro anche la facoltà di architettura, che mi appare subito, come dire, più simpatica. Si incontrava a volte Portaluppi, che era un personaggio duro, e poi a un certo punto ho anche intravisto Gio Ponti. Allora ho chiesto ai miei genitori di farmi passare all’altra facoltà.  A quei tempi mi piaceva molto disegnare, in una maniera un po’ incolta, e il mio obiettivo era diventare un caricaturista, mi piaceva l’umorismo, la satira. Più avanti, quando ero già studente da alcuni anni, ho anche dato il mio contributo, come aiuto segretario di Gio Ponti all’idea di fare il Museo di Architettura moderna. Allora Ponti per questa cosa si é battuto moltissimo, scriveva decine di lettere al giorno a tutti gli industriali che conosceva per far arrivare dei soldi, poi ha messo su un comitato scientifico che andava da Argan a Roberto Olivetti. Mi ricordo che Ponti, mi telefonava alle sei e mezzo del mattino, oppure di domenica sera, innamorato di questo progetto, che poi é finito completamente nel nulla. Beh! questa cosa mi ha molto culturizzato, perché nell’ipotesi di realizzare un Museo, tu cominci a studiare, cerchi di capire. Io non so se considerare Ponti un mio Maestro, ma sicuramente ne ammiro la globale genialità a tutti i livelli, e anche la forza di saper lavorare come 50 persone.
Devo dire che quando io frequentavo Ponti, la sua figura era denigrata dalla cultura moderna: c’era Rogers, per esempio, che faceva i “sorrisetti” e mentre veniva su il grattacielo Pirelli molti dicevano che era un comodino ingrandito.
Comunque, rispetto a tutto ciò, la mia partenza nel fare il design é stata così: il mio ingresso allo studio Nizzoli avveniva durante il ’68, e lì si è creata una piccola comunità , di cui io facevo parte, che ragionava molto sull’importanza della democrazia progettuale interna allo studio più che della qualità che doveva uscirne, vivevamo una sorta di mitologia della comunità progettante. Poi in quel momento ho cominciato Casabella e sono entrato in stretto contatto con artisti quali Paolo Scheggi, Getulio Alviani, Gianni Colombo,  Davide  Boriani, Toni Trotta e altri  personaggi di questo genere.
Diventato direttore di Casabella ho cominciato a chiamare intorno a me gli Archizoom,  il Superstudio, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Ugo La Pietra, Gianni Pettena, insomma tutti i progettisti di tendenza legati al Radical Design. Allora i primi oggetti fatti da me sono stati degli oggetti per realizzare delle copertine di Casabella: la sedia fatta di balle di paglia, la sedia bruciata, la valigia di bronzo, oggetti che io chiamavo ad uso spirituale, che nascono solo come “oggetti-idee” di spirito religioso.