Domus anni 1980-85

Alessandro Mendini, 2005

La rivista Domus realizzata sotto la mia direzione avviene all'inizio della cultura post-moderna, corrente del pensiero che in quegli anni nel mio caso avevo preferito chiamare “neo-moderna”.Con tale atteggiamento mentale andai alla ricerca allora dovunque nel mondo dei progetti, delle istanze, idee, immagini e cose che provocassero o partecipassero a questa epocale trasformazione mentale, che considero tuttora in pieno sviluppo, anche se ha cambiato nome.
Il mio metodo di lavoro cercava di insinuarsi, di svolgere azioni da un lato nelle culture lontane e marginali, dall'altro in quelle di avanguardia e di post avanguardia europea, con un'attenzione istintiva a tutto quanto non è istituzionale, a tutto ciò che è minoritario. E parallelamente sviluppavo un colloquio critico con le posizioni accademiche. Un metodo di lavoro basato sul paradosso, la metafora, l'eccesso, lo spiazzamento, l'ironia, il patchwork, che mi ha fatto pensare a certi slogan, a certe teorizzazioni come il “robot sentimentale” (ovvero un uomo moderno estremamente sensibile ma parzialmente meccanico), la “sopravvivenza sottile” (ovvero l'esigenza, nella civiltà dell'iper-sviluppo, di produrre oggetti e comportamenti sempre più sofisticati, ma arcaici), l'idea di “nuova religiosità”, l'ipotesi del “progetto molle”, del “de-progetto” (cioè di un progetto che tolga anziché aggiungere, che semplifichi anziché aumentare la complessità), lo slogan del “black design” (ovvero la necessità di dire chiaramente che nel futuro si vede nero), il miraggio di un mondo senza oggetti (cioè del “non-oggetto”) l'idea che possano esistere, che possano essere fatti degli “oggetti senza tempo” (privi della connotazione dello stile e dell'epoca in cui nascono). Un metodo che come progettista mi ha aperto il campo a quella stilematica decorativa, a quell'immagine di caos organizzato, a quella caleidoscopica attività visiva chiamata appunto neo-moderna. L'ipotesi sulla mia Domus era (e tuttora è per me) quella che debbano sussistere due elementi fra loro opposti nella realtà del progetto “per l'uomo”, da un lato un'architettura (che chiamai “ermafrodita”) che induca al massimo di approfondimento, di sensibilità e di personalizzazione psicologica e antropologica, dal lato opposto la coscienza di un'architettura “banale” (ma positiva) quella che si diffonde implacabile ovunque al di là di qualsiasi intelligenza progettuale.